La Scozia, per chi ama le passioni che covano sotto la cenere, le lievi malinconie, le gioie non urlate, le nostalgie "bittersweet", è, più che una regione geografica, un luogo dell'anima. Nel "Paese della pioggia" hanno trovato la loro sede ideale i numi tutelari delle più raffinate melodie; ancora lì vivono gli imprendibili elfi, unici depositari della formula segreta per distillare un inimitabile pop ad alta gradazione emotiva.
I Danny Wilson, da Dandee, già con il loro album di debutto datato 1987, "Meet Danny Wilson", dimostrarono, senza ombra di dubbio, di essere tra la ristretta cerchia di iniziati ai quali tale formula è stata rivelata. E Gary Clark, leader della band, potè, a buon diritto, pretendere un posto all'ampia Tavola Rotonda dei songwriter di talento nati oltre il Vallo di Adriano, accomodandosi tra Roddy Frame (Aztec Camera) e Ricky Ross (Deacon Blue).
"Meet Danny Wilson", titolo che cita pari pari una pellicola di Frank Sinatra, è stata una luminosa meteora che ha attraversato i cieli crepuscolari della pop music anni '80, rimasta per un po' in orbita grazie al notevole successo di un paio di indovinati singoli, tra le migliori canzoni che hanno raggiunto le vette delle charts di quegli anni, "Davy" e "Mary's Prayer". Tra i modelli di riferimento di Clark ci sono Paddy McAloon (Prefab Sprout) e soprattutto gli Steely Dan e come loro egli riesce a coniugare in modo impeccabile leggerezza e profondità, poesia e easy listening. Nell'album le sue notevoli capacità compositive, l'innato senso per la melodia, le non comuni doti di cantante hanno modo di esprimersi al meglio. Tutti i migliori filoni della musica pop, a cominciare da Bacharach, nei tredici brani che comprendono l'album si mescolano vorticosamente, come in un caleidoscopio, regalando immagini sempre diverse. E' uno spettacolo di fuochi d'artificio da togliere il fiato: suoni, intuizioni, idee, melodie sopraffine che si susseguono. Ma tutto ciò risulta essere, ed è questa forse la dote più evidente dell'album, scorrevole e complesso allo stesso tempo.
Clark riesce a rendere agevole ciò che da sempre è stato lo scoglio più duro da superare per il songwriter pop: scrivere canzoni fruibili, accattivanti, "facili" e che, allo stesso tempo, abbiano un'anima, non annoino dopo il terzo ascolto, che lascino un segno. E di certo non è facile dimenticare "Aberdeen", solare amarcord posto all'inizio del lavoro, "incastonato" tra i due singoli citati; oppure la prelibatezza jazzy di "Nothing Ever Goes To Plan", che riscalda più di un punch. Così come non può lasciare indifferenti il coinvolgente crescendo di "Broken China", il brano di maggiore impatto emotivo.
Ma l'album regala altre sorprese, come lo strappalacrime, felliniano, intermezzo bandistico, con gli ottoni in gran spolvero, di "Ruby's Golden Wedding" o la "joejacksoniana" "Stream to the Milk Away", song che ti proietta nei paesaggi primaverili delle natie Highlander.
Gary Clark e i suoi Danny Wilson dopo questo gioiello, sulla scia del successo ottenuto, riuscirono a pubblicare solo un altro LP un paio d'anni dopo, "BeBop MopTop", non alla sua altezza ma caldamente raccomandato. Dopo alterne vicende da solista e d'autore, il buon Gary ha deciso prendere dimora in quel silenzioso limbo che ospita molti altri talentuosi songwriters degli anni '80, la cui stella ha brillato fulgidamente, ma, ahimè, troppo poco: i già menzionati Frame e Ross, Lloyd Cole, Nick Heyward, Bob Hewerdine (i magnifici "The Bible!"), John Campbell ("IT's Immaterial"), Terry Hall ("The Corourfield"), Chris Isaak...a volte conoscere una formula magica può essere una vera maledizione.
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