- “Ehi, ciao!”
- “Ciao!”.
- “Come stai? E‘ da un po‘ che non ci si vede“.

5 minuti pieni di stronzate. Eterni. Enormi granelli di sabbia scendono goffi dalla clessidra; veloci quanto quegli immobili istanti che precedono l’interrogazione alla maturità. Si incastrano nel vetro e, così facendo, giganteggiano le pause. Rimango in balia di quei fastidiosi tempi morti di imbarazzante silenzio in cui sento perfino il beccare del piccione sul cemento qualche decina di metri più in avanti. Gelo. Ti trovo bene, dico con un sorriso falso: mimetico quanto uno stronzo fumante sulla neve fresca. Gra-zie mi risponde mentre stringe la mano del nano intento a cercare di spaccare il marciapiede per nascondere il nervosismo. Balbetta e quasi arrossisce tenendo lo sguardo basso. Non la riconosco. Chi cazzo sei, adesso? Il lavoro, sussurra? Bene. Mi fa piacere, dice annuendo. Cerco di vedere il lato positivo. Non ci diamo del Lei: è già qualcosa. Aspetto solo la patetica chiusa. La sento arrivare quando il nano radical chic gli tira un impercettibile calcetto con le sue Clark da 250 euro almeno. Un picchiettio sullo stinco: in quel gesto vedo chiaramente scritto in Arial 18 grassettato, corsivo e maiuscolo “saluta questo sfigato del tuo ex che ha pure la barba un po’ incolta: ho voglia di comperare una bella camicia“. La tira per il collare e lei, la sua copia, non abbaia nemmeno in segno di timida protesta.

- “Beh, scusa ma ora devo proprio andare. Dai, ci vediamo uno di questi giorni”.
- “Certo; nessun problema”.

E’ davvero un triste momento quando la consapevolezza che stai consumando un addio te la senti stretta improvvisamente tra le mani. Sono già lontani, pronti a saccheggiare i negozi più In della città, con La Repubblica in mano, e digerisco l’evidente fine della pausa di riflessione. Ormai dovrei esserci abituato, ma quella sensazione non se ne vuole andare giù: sembrano sassolini incastonati nell’esofago. La prossima volta che li vedrò cambierò via, per evitare di incorrere in un altro revival patetico come quello sopra citato. Non lo sai nemmeno tu perché; non avete litigato per davvero con urla isteriche e valzer di piatti per terra. Avete scivolato su un piano inclinato, ma ora siete diventati davvero estranei. Estranei che si conoscevano: come i compagni delle elementari.

Entro in macchina e metto nel lettore quel cd che le piaceva tanto. E come darle torto? E’ un must del rock melodico degli anni ‘80. Melodie zuccherine con pastosa produzione ovattata, capace di appianare i riff di chitarra ed esaltare i solos che sottolineano le ripetizioni del coro. Tecnica d’esecuzione, melodia d’autore e voce suadente di Darren Wharton rendono “Out Of The Silence” dei Dare un disco da tramandare ai posteri per chi apprezza il genere. Scorre, come al solito, agile mentre torco il collo al volante. Salgo in altezza seguendo i mid tempo riflessivi “Nothing Is Stronger Than Love” e “Into The Fire”: tripudio di tastiere, backing vocals e crescendo con una punta di malinconia. Lei, la vedo ballare nei miei ricordi, quando arriva “Runaway“: cazzo, quanto le piaceva scatenarsi su questa marcia allegra e ben strutturata. Quanto mi piaceva, vederla muoversi da goffa rock star. Spesso, facendomi gli occhi dolci, mi chiedeva il bis; ovviamente quando, ridendo, aveva già premuto il tasto per riascoltarla. Mi accosto, apro la portiera e chiudo gli occhi. Quale sia la strada lo ignoro. Mi siedo su una panchina: il traffico serale non mi fila di striscio. E’ quasi il tramonto; l’aria è frizzante e “Under The Sun” mi porta alla mente tutto quello che non ho più ad ogni giro di volta del refrain. Sempre di più. Mi bastano 3 ripetizioni della canzone.

Prendo il cd in mano e lo lancio nella campagna sottostante. Vola per un po’: sembra che la forza di gravità si sia dimenticata di lui, prima della frusciante discesa tra un cuscino di foglie, rami e forse un po‘ di rovi. La felicità, mi dico, deve essere senza dubbio alcuno dietro al prossimo tornante. Lo penso davvero, mentre guardo il parabrezza. E quasi ci credo.

Ilfreddo

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