In questi giorni di reclusione mi è tornata voglia di thrash metal, assecondando quindi questo sentimento faccio un tuffo nel passato e vado a guardarmi 3-Way Thrash con l’ausilio della rete, non possiedo infatti l’originale videocassetta del 1990.

Tre gruppi e tre modi differenti di battere e percuotere con i propri strumenti, live sul finire del 1989 al teatro Hammersmith Odeon di Londra.

Iniziano per primi i misconosciuti D.A.M. (acronimo di Destruction and Mayhem), complesso albionico ma dalle forti tinte Bay Area. Quattro canzoni tratte dal debutto Human Wreckage, presentate al pubblico con vigore ed energia. Lo stile non è nulla di innovativo ma la prestazione è convincente ed è un buon antipasto per ciò che seguirà. Sfruttano appieno l’occasione di aprire il concerto in casa e mostrano di essere allineati con i gruppi più melodici ed eleganti, sempre all’interno di ciò che il genere concede, su tutti i Flotsam and Jetsam. Pubblicheranno ancora un altro album l’anno successivo prima di sparire per vent’anni, seguirà la solita reunion, come da copione del decennio scorso, senza però nuove pubblicazioni.

Si prosegue con i Candlemass! Cosa c’entrano col thrash si chiederanno in molti, niente in teoria, però si vede che un tempo se ne infischiavano delle etichette di genere e alla fine facevano bene. Tanto sempre metal è!
Rispetto agli apripista si capisce subito che siamo su un altro livello: la band avvolge subito il pubblico in un clima oscuro ed austero, che traspare anche stando comodamente seduti sul divano di casa davanti alla smart-tv, guardando il file strappato all’antica vhs, alla faccia di tutta l’alta definizione di questo mondo. I ritmi rallentano ed i grandi classici del gruppo incedono pachidermici mentre Messiah Marcolin riempie completamente la scena. Canta i suoi sermoni con il suo enorme saio da frate con solennità e vigore, la sua teatralità è ipnotizzante e austera. I Candlemass sono al picco della loro carriera, reduci dai primi quattro album, partono con Dark Reflections, poi The Bells of Acheron, arriva quindi il turno della tristissima Solitude tratta dal debutto, seguita da Through the Infinitive Halls of Death, è Tales of Creation a farla da padrone in scaletta alle spese di Nightfall, infine infatti l’atmosfera diviene ancora più rarefatta e raccolta per la conclusiva A Tale of Creation.
Una prestazione magistrale, purtroppo troppo breve, per un concerto vissuto da gruppo di spalla a chi è agli antipodi dal doom funereo.

Ed ecco che è il turno dei Dark Angel.
Si presentano con i chitarristi ed il bassista di spalle e sullo sfondo l’immensa batteria dell’immenso batterista dall’immenso talento: Gene Hoglan!
Inizia subito il massacro: i riff abrasivi di Leave Scars si inseguono in lunghe progressioni mentre il suono della batteria sovrasta tutto ed al momento opportuno salta fuori dalle quinte Ron Rinehart, un grosso torello yankee, quella sera non si scherzava in quanto a corporatura, tra Gene e il panzone mal nascosto dal saio di Messiah Marcolin, che inizia a cantare furioso. Quando il microfono si ammutolisce lo getta via rabbioso e senza scomporsi ne va a prendere un altro, c’è tutto il tempo di rifarsi nel corso dei sette minuti abbondanti della title track dell’ultimo album in studio. I Dark Angel hanno sempre composto canzoni lunghissime a differenza di molti colleghi, avevano un senso della misura tutto loro.
Come proseguimento c’è la mitica The Burning of Sodom, con una ripartenza spezza-collo da manuale e la furia cieca più affine agli Slayer, infatti se questi ultimi sono i numeri uno, io assegno tranquillamente il due ai Dark Angel. Si continua con Never To Rise Again, nella quale Ron porge il microfono ai ragazzi nelle prime file per urlare il ritornello a squarciagola, poi The Death of Innocence e la sulfurea e meno intricata Merciless Death. La differenza è infatti piuttosto marcata tra i due album Darkness Descends e Leave Scars, più diretto e slayeriano, come già detto, il primo, più tecnico e complesso il secondo. L’evoluzione successiva, come molti sanno, estremizzerà ancora queste caratteristiche con Time Does Not Heal, complice anche probabilmente l’abbandono di Jim Durkin, già assente anche in questo live. A scanso di equivoci io ho sempre adorato l’ultimo album.
Prima dell’ultimo pezzo, We Have Arrived dal debutto omonimo, durante il quale Ron si concede una passeggiata tra il pubblico, il microfono viene passato a Gene, che in quanto boss fa il suo saluto prima di concludere in bellezza.

Una mezz’oretta di musica per i Dark Angel quindi con la quale finisce la videocassetta. Viene perciò il dubbio che non fossero loro gli headliner e a prova di ciò è bene sapere che anche i Nuclear Assault registrarono un live video la stessa sera. Cinquanta minuti di concerto sotto il nome di Handle With Care – European Tour ’89. Per i presenti fu sicuramente una grande serata!

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