Non mi sembra male sprecare, per la seconda volta, un po’ del mio tempo a parlare di un grande e, purtroppo, dimenticato nome della musica d'autore statunitense: David Ackles. In una società sempre più succube di vuote pantomime e di isterico egocentrismo, mi è sembrata preziosa, fin dal principio, l'umiltà di questo cantautore, la necessità di fare musica in sordina, attirando il minimo dell' attenzione possibile. Insomma, ho provato subito empatia per questo disadattato e onesto artigiano del mondo delle sette note.

La sua carriera inizia nel 1968 con la pubblicazione di "David Ackles" - un disco dai contenuti ispirati e con una melanconia di fondo che lo rende un'anomalia nell'epoca degli hippies - dove svettano la psicodrammatica "The Road To Cairo", la funerea "His Name is Andrew" e la nostalgica "Down River". Commercialmente parlando, si tratta di una pessima partenza, nonostante l'apprezzamento della critica e di molti addetti ai lavori. Nel 1970 giunge il turno di "Subway To The Country", oggetto di questa recensione.

Rispetto all'esordio non costituisce una svolta clamorosa, tuttavia comincia ad affiorare una certa versatilità stilistica, e ciò lo si deve anche alla presenza di una nutrita schiera di sessionmen. Evito il "track by track" pedissequo e non esito a dire che la vetta del disco è "Candy Man", elegia inquietante (quanto "His Name is Andrew", se non di più) condotta dall' harpsicord e con un tenue accompagnamento orchestrale, dove la voce glaciale di Ackles ci narra di un reduce di guerra dalla psiche devastata che arriva a molestare dei bambini. E mi viene da aggiungere che ascoltare un brano simile nel 1970 doveva equivalere al ricevere un pugno sotto la mascella. Tutt'altro che rassicurante è anche l' invettiva "brechtiana" di "Inmates of Institution", nel cui testo scorre una serie d'immagini surreali assecondate da un arrangiamento curato nei minimi dettagli. "Woman River" sembra emergere da una fitta coltre di nebbia, all'interno della quale la voce baritonale fluttua trasognata e i fiati fungono da fari . A ricalcare che la serenità non è di casa in questo disco ci pensa "Out on the Road" (che sembra quasi una riscrittura di "The Road To Cairo"), manifesto d'ordinaria disperazione dove il canto inizialmente pregno di un'atavica depressione si trasforma inaspettamente in rabbia nell'ultima parte della canzone. Episodi che non spiccano, ma neanche scadono nel mediocre sono l'honky-tonky di "Cabin on the Mountain" e il cocktail-jazz di "Mainline Saloon" (qui sembra di sentire il Tom Waits "nottambulo" degli inizi con qualche anno d'anticipo). "That's No Reason To Cry" narra della fine di un amore senza sfociare nel patetismo grazie alla discrezione dell'arrangiamento (a proposito, di una delicatezza rara la coda strumentale con la quale sfuma il pezzo) e alla sensazione di serena rassegnazione che la permea. La ballata eponima - che culmina in uno splendido ritornello romantico - chiude il disco con le sue fascinazioni retrò.

David Ackles non scala le classifiche con questo disco, né lo farà con il successivo "American Gothic" e neanche con l'ultimo "Five & Dime", dopo il quale si ritirerà mestamente, avendo imparato a sue spese che nel mondo della "musica pop" più urli (non importa cosa) e più ottieni attenzione. E' una legge cinica, incontrovertibile e "infame" che ha mietuto innumerevoli vittime di talento. David Ackles è tra queste.

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