Ogniqualvolta viene pubblicato un nuovo disco di David Bowie parole e soprattutto aggettivi si sprecano. Chi vi scrive ha 29 anni, è un ragazzo che ha avuto la fortuna di assistere personalmente all’uscita di un nuovo disco di Bowie poche volte, fino ad ora esattamente 3 in 15 anni di militanza bowiana. Eppure anche stavolta il Duca Bianco sorprende, un Bowie totalmente diverso da quello che abbiamo ascoltato nel precedente “The Next Day”: laddove l'artista ha optato per un linguaggio musicale che richiamava al suo passato, ed in particolare a quello della prima metà degli anni settanta, qui Bowie decide di non essere rassicurante, di navigare in mare aperto, di sfidare le onde. Torna ad essere quell’artista algido e forse un pò presuntuoso che sperimenta, che azzarda, che si spinge oltre, che tanto ricorda il celebre periodo berlinese.

Bastano le parole del produttore Tony Visconti per capire in quali territori ci muoviamo: "Bowie ha voluto musicisti jazz per suonare il rock. Avere ragazzi jazz che suonano rock vuol dire capovolgere tutto. In questo disco abbiamo messo qualsiasi cosa, volevamo qualcosa di fresco con l’obiettivo di evitare il puro rock'n'roll".

L'inedita band che affianca Bowie (il chitarrista jazz Ben Monder, il batterista Mark Giuliana, il bassista Tim Lefebvre, Jason Lindner alle tastiere e, in soli due brani, il fondatore degli LCD Soundsystem, James Murphy, alle percussioni) offre alla sua musica una prospettiva ed un punto di vista pressoché inedito, una profondità musicale, anche sotto il profilo virtuosistico: sono musicisti jazz che interpretano la musica di Bowie, fornendogli così una tinta e delle sonorità diverse e insolite. Un esempio lampante è il brano “Sue - Or In A Season Of Crime” o anche la stranissima, cupa, onirica title track, 10 minuti di continui registri di tono, musicali e vocali, che molta critica non ha esitato ad accostare allo Scott Walker più sperimentale.

Lui emerge con la sua voce, che se da un lato ha perso in potenza e in estensione, dall’altro viene usata con una maestria, un'espressività, una forza "teatrale" notevolissima, che offre allo strumento vocale delle venature diverse rispetto al passato.

L'album ha una forte coerenza stilistica interna, che ne fa un progetto complesso ed unitario, a dispetto dell'origine eterogenea dei singoli brani: non c'è l'effetto "patchwork" che era un po' il limite di “The Next Day”. Ogni elemento si incastra alla perfezione col precedente e col successivo, nel disegnare il paesaggio musicale che Bowie ci ha voluto offrire. Un album che si scopre poco alla volta, in cui ogni ascolto offre elementi nuovi, nonostante la sua breve durata (appena 41 minuti, solo 7 canzoni, di cui 2 già pubblicate nella raccolta “Nothing Has Changed” del 2014, qui ri-elaborate per l’occasione).

E' un disco che alterna momenti in cui l'elemento virtuosistico la fa da padrone, come nei vortici sonori della splendida “Tis a Pity She Was a Whore”, un pezzo con una base quasi drum’n’bass, o nel gioiellino teatrale che è “Girl Loves Me”, a momenti in cui c'è una potenza emotiva che raramente Bowie ha lasciato andare in maniera così disinvolta: penso a “Lazarus”, sorta di noise-rock che gioca col blues condito da atmosfere noir, penso alla bellissima “Dollar Days”, o anche alla ballata “I Can't Give Everything Away”, che chiude l'album in maniera diametralmente opposta a come era stato aperto dalla title track: lì c'era un'atmosfera cupa, gotica, oscura, malinconica, qui il sassofono, la chitarra - e che chitarra! - la ritmica leggera, disegnano un'atmosfera ariosa, luminosa, a tratti venata di una dolce nostalgia.

“Blackstar” è un album che aggiunge un capitolo nuovo nella carriera di Bowie, di cui pensavamo di aver sentito tutto quello che aveva da dire.

Ma evidentemente non era così.

Carico i commenti... con calma