Estate 1987. Epoca in cui 17enne foruncoloso e disinteressato a qualsiasi manifestazione sportiva trasformavo in un nanosecondo la paghetta dei genitori in vinile e musicassette e nondimeno i miei coetanei. Fu proprio allora che rincasai trionfante con l'ultimo 33 giri del Duca in compagnia del mio inseparabile amico Sandro. I miei coscritti non credo debbano fare uno sforzo supplementare di immaginazione per tornare a quei ruggenti anni. Dunque svestii il padellone del cellophane e lo adagiai sul piatto posizionando la puntina sul primo solco.

Un "alienante" ritornello si levò dagli altoparlanti urlando "Day in day out" scandito dal rullante di batteria più reverberato di sempre e da un importante tappeto di sinth e fiati improbabili dal quale ogni tanto spuntava qualche svisata tagliente di un giovane Pete Frampton. Io e Sandro ci guardammo con disappunto. La puntina si spostò sul secondo solco ed ebbi la rassicurante sensazione che Bowie fosse tornato quello di "Loving the Alien" che ancorchè non fosse il mio "alieno" preferito scivolava via piacevolmente. L'attacco di Time Will Crawl con quel suo malinconico ostinato di tastiere non mi dispiacque e così la canzone una tipica ballad pop abbastanza coerente con i suoi ultimi lavori. Il resto dell'album mi parve atterstarsi su una qualità che purtroppo confermava la strada già intrapresa con il suo precedente "Tonight" di cui tuttavia amavo diversi pezzi. Proseguii il mio viaggio in "Never Let Me Down" e finalmente capii il motivo di tanta irritazione, arrangiamenti cosi' pomposi e ridondanti da adombrare anche la piu' pregevole composizione.  Il mio ascolto si fermo' con l'autocelebrativa "Zeroes" un'altra ballad pop che con la raffinata "Heroes" non ha niente ha che fare a parte l'assonanza, ancora una volta farcita dalle onnipresenti tastiere di Erldal Kizilcay.

Giudicai il disco pretestuoso ed il pretesto sembrava essere quel Glass Spider Tour di cui già possedevo il biglietto. L'album suddetto suonava come un brutto presagio. Qualche giorno dopo ascoltai gli stessi identici pezzi dal prato del Comunale di Torino da cui osservavo meravigliato Peter Frampton dai vaporosi capelli biondi tanto in voga allora, strapazzare la sua strato e duettare con un Carlos Alomar preciso nella ritmica e algido nel look post atomico azzeccatissimo. Improvvisamente tutto si ammantò di magia ed ogni singolo brano del disco mi parve un capolavoro sostenuto com'era da coreografie a tema, andirivieni di ballerine, mimiche alla Klaus Nomi insomma un concentrato della migliore avanguardia Newyorkese in bilico tra Soho e Broadway. Poi quando a notte ormai inoltrata le luci si fecero soffuse e dal piano si libero' l'intro di "Time" un brivido mi attraversò da parte a parte e a 25 anni di distanza è ancora li. Quello non fu un concerto qualsiasi, ma l'esplorazione di due decenni di metamorfosi, in cui le liriche pianistiche di Aladdin Sane rincorsero il vellutato philly sound di "Young Americans" ed ancora il piglio abrasivo di "Bang Bang" o il funky di "Scary Monster". Una notte che data la sempre più insistente voce sul ritiro del Duca le nuove generazioni forse non vedranno mai. Concludendo un disco discutibile generò un tour memorabile e anche se Bowie in seguito ha saputo riscattarsi con "Heartling" ecc a me piace ricordarlo così, un folletto in abito rosso partorito dalle fauci di un gigantesco ragno di vetro, lo stesso ragno che nel 1972 lo consacrò a stella internazionale.

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