Giudicata da critici e fans come la peggior prova discografica di Bowie, "Never let me down" è stato a volte definito come la prova che anche i grandi possano compiere delle rovinose cadute.

Perché recensirlo? Intanto non amo i doppioni (che nel caso di Bowie sarebbero triploni e quadriploni), e se gli altri hanno fatto razzia dell'arrosto a me non rimangono che gli ossi del brodo; inoltre mi piace cercare, masochisticamente, degli aspetti positivi anche in opere scadenti come queste.

Premetto che solo i completisti potrebbero sentire il bisogno di acquistare questo disco tra i 26 ufficiali della discografia del Duca Bianco, ma chi lo farà, a mio parere, non avrà tra le mani un disco infame.

Intanto il rinnovato impegno come autore: dopo l'ignavia di "Let's dance" e "Tonight", qui c'è l'impressione che il nostro si sia seduto a tavolino a spremersi le meningi per dieci nuovi brani (più una cover, tanto per cambiare di Iggy Pop), e un paio di B-side (per i completisti, Julie e Girls) di livello superiore all'album ma inesplicabilmente escluse dalla tracklist. Il risultato è purtroppo omogeneamente mediocre: se nei due dischi precedenti i singoli si stagliavano nettamente sugli altri brani-riempitivo, qui manca un guizzo, un colpo di scrittura, un brano degno di rientrare stabilmente nel canzoniere bowieano (forse si salvano "Time will crawl" e soprattutto "Glass spider", pezzo teatrale, scelto come apertura dei successivi concerti), e non a caso dopo il 1987 nessun brano verrà riproposto dal vivo, e uno dei pezzi verrà addirittura omesso nelle successive ristampe.

La produzione è anche qui sovraccarica, ma almeno si abbandona l'eccesso di sintetizzatori a favore di un suono più rock e guitar oriented. Vocalmente l'album è variegato, non prevale più il monocorde tono baritonale e compiaciuto, ma in ogni canzone c'è un approccio differente e, al di là degli esiti, convinto; inoltre l'autore torna a sporcarsi le mani suonando i vari strumenti. Il parco musicisti si rinnova con il recupero della vecchia gloria Peter Frampton alla chitarra, e con l'ingresso di tale Erdal Zizilcay, dotato polistrumentista di origine turca (non esattamente Brian Eno, ma questo passava il convento).

Tutto considerato, si è di fronte a un disco più sincero e meno modaiolo dei due precedenti, ma con brani assolutamente dimenticabili e meno ispirati, e c'è l'impressione che l'autore abbia voluto, invano, riacquistare una centralità di musicista, abbandonando il ruolo di uomo di spettacolo globale: la sincerità di questo approccio è provata dal fatto che, nonostante il flop, il tentativo verrà riproposto e radicalizzato con l'esperienza dei Tin Machine.

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