Si fotta il Regno Unito tutto, ché ogni volta che metto piede in terra di Albione è un ribollire di sangue e maldicenza, là dove il benvenuto me lo dà quella fottuta uggia umidognola che crea fanghiglia e muschio sul mio casco di capelli arruffati. Si devono fottere tutte le auto con quelle targhe dallo sfondo sgargiante e la fottutissima guida a destra che mi costringe a pregare nella benevolenza di tutti gli autisti di camion pakistani ogni volta che imbocco puntualmente il senso opposto nelle fottute rotonde che girano in senso contrario. A destinazione mancano 60 miglia. 60 miglia? Che saranno mai 60 miglia? Quasi 100 chilometri, ma a vederle così sul cruscotto sembrano così fottutamente poche. Quanto si deve fottere la Gran Bretagna tutta, che se ne fotte del Sistema Internazionale e ragiona in termini di piedi, iarde, once, libbre e miglia.

Arrivo in città quando ormai è sera, ed è la solita fottuta periferia dove tutto è profondamente vecchio e le moquette degli hotel puzzano di polvere e transumanza. Deve esserci un recondito motivo per il quale nel Regno Unito la gente si ostini a volersi crogiolare in un mondo vecchio di duecento anni alloggiando in cottage fatiscenti con mobili in radica di noce e bagni dai lavandini senza miscelatori. Fortunatamente a scagliare un dardo di luce in questa cupezza d'Oltremanica in uno sperduto paesino dell'East of England ci pensa quell'inattesa apparizione che ha nome Carol, la giovanissima segretaria che staziona nella reception dell'ufficio con i suoi boccoli nerissimi e due lapislazzuli incastonati negli occhi. Fottuta pandemia, è il caso di dirlo, che non mi fa scorgere nulla al di sotto del suo naso per colpa di quella fottuta mascherina che cela agli occhi dei più l'interezza del sembiante, ma poco importa: ad un mio accenno di battuta sul vento gelido inglese o sulle mie beghe con la guida a destra, le sorridono gli occhi e tanto mi basta per farmi dimenticare in fretta il cappuccino freddo e annacquato bevuto poco prima in albergo. Nell'andirivieni che accompagna ogni mio passaggio obbligato nella hall dell'ufficio non posso fare a meno di notare che Carol ha adornato la sua postazione di biglietti di concerti di musica rock: Robert Plant, Stones, Deep Purple, Roger Waters. Chi l'avrebbe mai detto: dietro quelle chiome composte e i begli occhi cerchiati di blu, Carol è una rocker che fa il giro della Gran Bretagna per urlare "You make a grown man cry" e "Want to whole lotta love", perfettamente bardata di braccialetti di pelle, jeans strappati e anfibi neri. Quella sua passione per i concerti è certamente una buona scusa per iniziare una conversazione, anche se non sono certo un animale da live, ma le competenze sul tema mi consentono di discutere con lei di questo o quell'artista senza intoppi. Lei poi prova un amore incondizionato per David Gilmour e fa bella mostra del biglietto del "Rattle That Lock Tour" del 2015 quando l'ex-chitarrista dei Pink Floyd aveva dato seguito all'omonimo progetto solista uscito qualche mese prima. Non le nascondo certo che per un tradizionalista come me è impossibile pensare che ci sia vita oltre i Floyd del 1994, e mi sono già spinto piuttosto in là nel tempo, ma lei insiste nel consigliarmi di ascoltare quel "Rattle That Lock" composto da un Gilmour alle soglie dei settant'anni. Bene, giacché a quei lucenti lapislazzuli non si può dire di no, decido certo di dare una chance a questo lavoro del buon David per trovare ancora un motivo di conversazione con Carol.

Ascolto riservato alle otto di sera in punto dopo il consueto sandwich integrale con chutney di cipolla e mashed potatoes agliate: 50 minuti abbondanti che scorrono fluidi nelle mie orecchie mentre il mio speedball allo scalogno e aglio vaga nell'esofago senza requie. Il verdetto sul disco è chiaro e non ammette repliche: una chiavica inconsolabile. Sì, potrei anche spendere cinque minuti per dire che "Rattle That Lock", nel senso della title-track, e "Today", non a caso i due singoli estratti da questa informe melassa, sono i due pezzi meno peggiori del lotto e "5 A.M." e "And Then..." dove il nostro imbraccia la chitarra come solo lui sa fare, starebbero bene come musica di sfondo nella sala d'attesa di uno studio dentistico in qualità di scarti del coevo "The Endless River" a nome Pink Floyd. Per il resto ci sono pezzi a dir poco ributtanti come "Faces of Stone" e "In Any Tongue" e si ha pure l'impressione che David si diverta a scimmiottare se stesso quando in "A Boat Lies Waiting" intona una nenia che ricorda tremendamente la dimenticabile "A Great Day for Freedom" di "The Division Bell" di vent'anni prima. Insomma, come previsto, era quasi impossibile aspettarsi qualcosa di buono da un artista settantenne che ha dato il meglio di sé in una band di cui si è detto e scritto già tutto. Certo, ora si tratta solo di dirlo a Carol, ma la notte porterà consiglio sulle modalità di comunicazione. Mi focalizzo sull'obiettivo primario, che è quello di spingere verso le zone basse la miscela letale del pasto serale e mi addormento sognando il fottuto parrucchino di Boris Johnson che mi insegue con un tampone lungo tre metri che punta al mio riverito fondoschiena.

San Bernardino da Gaviscon mi ha fatto superare la notte e posso quindi riprendere il discorso con Carol a partire dal punto in cui l'avevo lasciato. Lei è sempre lì alla sua scrivania, con due lapislazzuli ancora più luminosi - sarà che è venerdì e pregusta già i programmi dell'imminente weekend - e i boccoli che le fanno serto sulla fronte: attende certo un parere sul disco di cui mi ha consigliato l'ascolto o forse sta semplicemente pensando ai fatti suoi e mi sorride per cortesia; io mi avvicino e ad un suo cenno che spero sottintenda la curiosità di avere un riscontro, le dico che David è sorprendente e ha ancora i guizzi dei tempi migliori nonostante i suoi quasi settant'anni. Lei si concede ad un sincero stupore e i suoi occhi festanti mi ripagano del senso di colpa per averle mentito spudoratamente. Una breve conversazione su qualche nuova uscita degna di interesse e poi un veloce saluto: riparto da Heathrow in serata e per via dei numeri della pandemia saliti vertiginosamente nell'ultima settimana, non è improbabile che per motivi di sicurezza questa sia l'ultima trasferta d'Oltremanica per il progetto. Certo, ora ci sarebbe un lieto fine se prima di congedarmi probabilmente per l'ultima volta, Carol concedesse alla mia vista quel sorriso agognato soffocato dalla fottutissima FFP2, ma non riesco ad indossare la faccia tosta di chi osa chiedere tanto, per cui mi accontento ancora una volta delle timide rughette attorno ai suoi occhi come sobrio saluto di commiato e lascio l'East of England per raggiungere l'aeroporto.

Il viaggio sull'affollato Boeing 737 solitamente mi mette addosso una sonnolenza fuori dal comune, ma stavolta il tappeto pulsante di luci londinesi mi tiene sveglio mentre lo steward recita la consueta litania delle regole di sicurezza. L'aereo nel prendere quota saluta la bruma bluastra della City e sul vetro del finestrino mi sembra di vedere riflesse le ciocche nere di Carol mentre gesticola come una splendida rocker all'ultimo tour di Gilmour, tanto che mi viene naturale chiamare il suo nome per attirare la sua attenzione. Lei si volta verso di me e il suo sorriso luminoso mi racconta ancora del Regno Unito, della sua uggia umida, della guida a destra, delle iarde, degli hotel dalle moquette polverose, dei sandwich al chutney di cipolla, dell'East of England e della mia fottuta voglia di tornarci ancora.

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