Decretare la sincerità di un disco, specie se di stampo chiaramente pop, è sempre molto difficile. Se da un lato è chiaro che il rock lungo i suoi sessant'anni di vita è stato (quasi) sempre capace di tradire se stesso e rinnovarsi costantemente, così non è per il pop, che sembra rimasto tale e quale - compositivamente parlando, ma anche per gli arrangiamenti e le liriche - a quello proposto quarant'anni fa da Elton John e Cat Stevens, per fare due nomi famosi e apprezzati non solamente dai puristi del genere. In generale, storicamente e culturalmente il pop e il rock seguono strade diverse, e nella maggior parte dei casi è vero che l'onestà e l'urgenza di fare musica appartengono più al rock che alla musica cosiddetta "popolare". Eppure esistono delle eccezioni, troppo spesso dimenticate.

Difficilmente nella discografia di David Gray troveremo qualcosa di vicino al rock, difficilmente potremo esimerci dal definire i suoi album "pop". Eppure, io lo considero uno degli artisti più liberi e più sinceri in circolazione. Ogni sua canzone, ogni suo album mi sa di confessione accorata, figlia di un'esigenza interiore di catarsi del dolore o di espressione di gioia perduta e ritrovata che si sente a casa solo quando si mette a nudo, e non quando è protetta da chitarre distorte e da elaborate linee di basso e batteria. Faccio molta fatica a leggere nelle sue scelte stilistiche e compositive delle motivazioni prettamente commerciali, come se il suo intimismo fosse in realtà un prostituire il proprio spirito e i propri vissuti per il semplice scopo di fare soldi. D'altra parte, è bene ricordare che i primi tre dischi di questo folletto inglese non se li è filati nessuno, e per pubblicare tre album (in ordine, A century ends, Flesh e Sell sell sell) commercialmente poco validi bisogna averne di coraggio e di tenacia. Proprio da questi primi dischi emerge d'altronde, timida e risoluta insieme, blasfema per molti, l'idea che una voce e una chitarra possano già da sole recuperare qualcosa dell'essenza più pura della poesia, con l'aggiunta di almeno due componenti fondamentali, ovvero la melodia - nel suo caso, sempre di ottima fattura - e la voce, il canto, che trova nel baritono roco di Gray il sofferto tramite tra artista e pubblico.

Il successo europeo (anche se purtroppo non italiano) David Gray lo ha cominciato a raccogliere solo alla fine dello scorso decennio, con il pluriincensato "White Ladder" (pubblicato esattamente dieci anni fa, nel marzo del 1999), probabilmente il migliore della sua carriera insieme al disco d'esordio. Non una vera e propria apertura verso il pop commerciale, quanto piuttosto una scelta di produzione che si lascia contaminare da un sound più moderno e accessibile, per quanto comunque nel suo piccolo originale. Che l'album fosse una compilation di potenziali hit lo si capiva d'altronde fin da un primo ascolto: l'opener pianistica "Please forgive me" parte subito con una successione di accordi in minore retti da un beat perpetuo di batteria elettronica (un marchio di fabbrica del disco ed una delle principali innovazioni apportate da Gray al suo pop folk quasi sempre acustico e scarno) e da violini pacati, celebrando una melodia nobile e semplice come si addice al pop di classe. Il salto di qualità da una canzone votata all'immediatezza emozionale ad una soluzione più mediata e d'atmosfera lo si individua anche nella successiva "Babylon", un gioiello di semplicità ma anche una canzone di grande dolcezza dotata di un'ottima struttura armonica perfettamente ritmata dai beat fatti in casa e da un riff acustico che entra subito in testa, raggiungendo l'apice nel ritornello in cui Gray ci esorta a "lasciare andare il nostro cuore e la nostra mente".

Parte del folk introspettivo che aveva caratterizzato i dischi precedenti lo si ritrova in "My oh my" e "Nightblindness", prodotti d'alta scuola in cui la voce di Gray si fa più meditativa e cupa, capace di recuperare da una parte l'intimismo esasperato di Flesh e dall'altra di anticipare il gelo invernale del successivo "A new day at midnight" con l'utilizzo soffuso e sapiente di una scia di sintentizzatori. Le due ballate sono intervallate dall'allegra "We're not right", forse il passo falso dell'album, indubbiamente discreta ma al di sotto del livello delle altre tracce. Con "White Ladder" e soprattutto "Silver lining" si ritorna su un terreno vicino a quelle produzioni eteree e leggiadre che in quegli anni avevano preso il nome di New Acoustic Movement, ma è con la malinconica ballata "This year's love", la migliore del lotto e una delle più struggenti canzoni d'amore degli anni Novanta, che si scorge tutta la potenzialità emotiva e lirica del cantautore inglese. Lungo quattro minuti scarsi un pianoforte, una voce e dei violini bastano per trasportare l'ascoltatore in un universo onirico e regressivo, di una dolcezza indefinibile, che si trascina e si disperde lentamente solo con la successiva "Sail away", filastrocca acustica che è anche un gioiello di arrangiamento e produzione. Il disco si conclude con un'insolita cover dei Soft Cell, "Say hello wave goodbye", lunga quasi dieci minuti, che stravolge completamente la versione originale producendo ancora una volta un ossimorico contrasto tra la pacatezza della voce e il ritmo inflessibile delle percussioni.

Parlare di capolavoro è forse esagerare, e tuttavia con questo disco Gray tocca degli apici assai rari per una musica - come la sua - che prescinde da qualunque ricerca stilistica e fonda se stessa interamente sull'aspetto lirico ed emotivo della composizione. Fedele ad una tradizione decennale e forse addirittura secolare, qualora sfoci nel folk più puro, la musica di Gray può forse apparire reazionaria e fine a se stessa, eppure contiene dentro di sè il segreto delle emozioni, che talvolta il rock, specialmente quello più vicino ai facili cliché, ma anche quello più ricercato e mediato, è incapace di mostrarci con altrettanta chiarezza e sincerità.

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