"Blue Velvet", ovvero gli sporchi segreti che strisciano nell'ombra della società perbenista, così come l'ombra fra le pieghe del vestito di velluto blu della bella cantante da club Dorothy Vallens.

David Lynch ricama con cura certosina immagini che trapassano gli occhi dello spettatore (che dopo aver visto la pellicola guarderà con sospetto i propri amici, i propri vicini, la propria società) per penetrargli direttamente nel cervello, per impigliarglisi per sempre tra i sottili fili della psiche.

Perchè la storia tessuta magistralmente e spasmodicamente da Lynch, è una storia sporca, di quelle che ti si infilano dentro per restarci e contaminarti con le loro luride vicende, le loro insopportabili violenze fisiche ma soprattutto psicologiche. Cosa succederebbe se un giorno, tornando magari da lavoro, da scuola, da una visita alla fidanzata o agli amici, si facesse una scoperta destinata a cambiare per sempre la propria visione della realtà? Ciò che si credeva impossibile diventerebbe concreto, lo stesso sole che illumina ogni giorno il luogo in cui vivi avrebbe un aspetto diverso, i sorrisi della gente per strada apparirebbero vuoti e falsi.

Tutto questo accade a Jeffrey Beaumont, un ragazzo come tanti che vive in una provincia americana linda e solare come tante, e che un giorno tornando verso casa trova un orecchio umano mozzato (l'equilibrio infranto) fra gli steli d'erba ingiallita di un campo al limitare del bosco.

Sarà la sua curiosità, caratteristica umana per eccellenza, a trascinarlo in un vortice di perversioni psicologiche al limite del sopportabile, sollevando con le sue investigazioni i marci segreti sepolti sotto la tranquilla quotidianetà di una calma vita cittadina. La sensazione di qualcosa di profondamente sbagliato, di strisciante, di malato e nascosto, accompagnerà sia Jeffrey che lo spettatore durante l'intera durata della pellicola, e porterà con se l'effetto di una accieccante luce blu al neon conficcata nella mente, che illumina con fredda precisione particolari mai notati, barriere mai infrante, torbidi misteri mai portati a galla.

La stessa ambiguità su cui si regge il film non risparmia il protagonista, costantemente in bilico fra il vouyerismo patologico e la semplice curiosità, mettendo in mostra il lato oscuro di ognuno di noi.

La vicenda si concluderà in modo lieto, con la simbolica immagine del pettirosso che tiene nel becco uno scarafaggio, eppure, lo spettatore, così come i protagonisti del film, saprà che il ritorno ad una situazione di normalità sarà del tutto apparente e che una minuscola scalfitura rivelerebbe di nuovo la malattia che si annida sottoterra.

Una metafora, un paragone quanto meno azzecato fra  realtà e norma, irreale e anormale, concetti in grado di equivalersi quando una persona come tante si ritrova catapultata nell'ignoto.

La pellicola che più d' ogni altra svela le tematiche che toccano ogni film di David Lynch.

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