La semplicità non è una forma estetica ma una conquista che richiede un grande sforzo. La riduzione di un'opera al suo minimo essenziale richiede attenzione e fatica. Significa eliminare ogni gesto superfluo, eccedente che può compromettere anche l'elemento più semplice. "Manafon" è questo: scarnificare, il più possibile, la musica di ogni orpello ed ottenere, tuttavia, ancora una canzone. Nella traccia di apertura, la delicata "Small Metal Gods",  Sylvian canta quello che è il senso della sua nuova direzione artistica: "It's the farthest place i've ever been, it's a new frontier for me" ("È il luogo più lontano dove sia mai stato, una nuova frontiera per me"). Con Manafon, infatti, il musicista inglese si spinge oltre quanto già fatto con l'eccellente "Blemish" (SamadhiSound, 2003), giungendo ad una perfetta sintesi tra urgenza espressiva e rigore formale. Ogni strumento viene utilizzato con parsimonia, a cominciare proprio dalla sua inconfondibile voce, profonda e controllata come mai in passato, vero legante di tutti i frammenti, dalle diafane improvvisazioni elettroacustiche, ai silenzi, agli sfrigolii, ai feedbacks che concorrono a definire l'album.

Registrato nell'arco di tre anni tra Vienna, Londra e Tokyo, Sylvian si è avvalso, tra gli altri, della collaborazione di straordinari musicisti come Christian Fennesz, Evan Parker, Otomo Yoshihide, i due AMM John Tilbury e Keith Rowe, Werner Dafeldecker e Toshimaru Nakamura. La musica prodotta, interamente free, successivamente, è stata  rimontata da Sylvian che, solo a quel punto, ha aggiunto le parti vocali e la sua chitarra acustica. Interessante, a tal proposito, quanto il musicista afferma in un'intervista: "Ho usato suoni atonali come punteggiatura, coda, una chiave suggerita...qualche volta, dovevo andare avanti solo sul ronzio di un amplificatore o dei pickup delle chitarre di Keith. Dove necessario, ho aggiunto il mio contributo musicale, sotto forma di chitarre ed elettronica". Il risultato di questo processo creativo è una perenne tensione tra improvvisazione e composizione, vuoto e pieno, astrazione ed empatia. "Manafon" non è né Contemporanea, né Pop, né Jazz, ma un nuovo modo di intendere la canzone o come la chiama il suo autore "una moderna forma di musica da camera, intima, dinamica, emotiva e democratica".  Una musica da camera, tuttavia, prossima al dissolvimento, spettrale, caliginosa, in cui ogni brano è composto da schegge, sparute note di piano, chitarra, sax, violoncello. Colpiscono, in particolare, il lavoro di Tilbury al pianoforte, capace  con pochi tocchi di creare atmosfere ora sinistre ("Random Acts Of Senseless Violence") ora sospese ("The Department Of Dead Letters"), il dolente sax di Parker (la coda di "Emily Dickinson", "The Rabbit Skinner"), l'elegiaca elettronica di Fennesz (l'intensa "Snow White in Appalachian", la laconica "Manafon"). 

I temi trattati nei testi (religione, falsi miti, mediocrità del genere umano, paure di un uomo maturo) trovano la loro chiave di lettura nell'ultima traccia che dà il titolo al disco, Manafon, nome del villaggio dove visse il poeta gallese R. S. Thomas, un uomo dal rapporto profondamente tormentato con la fede e la famiglia e che ha ispirato l‘intero album. Significativi, a tal riguardo, i versi di rifiuto contro il proprio credo presenti nella già citata "Small Metal Gods": "ho piazzato gli dei in una borsa con la zip / li ho messi in un cassetto / hanno rifiutato le mie preghiere per l'ennesima volta / così sto pareggiando i conti" ... "piccoli dei di metallo / souvenirs da poco prezzo / di sicuro mi avete abbandonato / ho scaricato le mie sciocchezze infantili / sto pareggiando i conti" .

A cinquantuno anni, David Sylvian si è definitivamente affrancato, quali che siano, dai souvenirs di poco conto che lo tenevano in catene e ha realizzato il suo lavoro più importante, un'opera che segnerà indelebilmente questo 2009. Un'esperienza non facile, ostica, che sulle prime può dare un senso di smarrimento analogo a quello che si prova camminando, senza più riferimenti, in un'intricata foresta (l'immagine dell'artwork non è casuale, forse siamo quell'animale dall'esile sagoma tra gli alberi). "Manafon" impone un ascolto attento ma che ripaga restituendo grandi emozioni e, soprattutto, accresce la stima verso questo artista ed il suo coraggio di sperimentare, di ricercare, di non ripetersi, di spingersi in territori dove neppure Scott Walker con i  sui capolavori (Tilt, Drift), Arthur Russell o Mark Hollis erano pervenuti.

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