Questo non è un mondo di merda! Fintanto che possiamo contare su un artista come David Thomas!

Mente fervida dei Pere Ubu di Cleveland, OH, così fondamentali per l’evoluzione della new wave e dell’alternative rock, Thomas ha comprovato il suo irregolare genio anche nella carriera solista con dischi eccelsi come “The Sound of the Sand”, “Variations On A Theme” (in collaborazione con Richard Thompson) o questo del 1996.

Ispirato dalla lettura di “Erewhon: or, Over the Range” di Samuel Butler, scrittore swiftiano e iconoclasta d’epoca vittoriana, Thomas ci parla di mondi immaginari né utopici né distopici, allestendo arrischiate canzoni, prive di linearità melodica e tanto scarne quanto evocative. Ad accompagnarlo questa volta ci son due visi pallidi, i Two Pale Boys (Andy Diagram alla tromba e Kaith Molinè alla chitarra elettrica).

Il malodeon (la sua para-fisarmonica) detta sovente il ritmo; qualche pennellata di tromba, una chitarra minacciosa, carica di attese ma priva di climax, sintetizzatore e theremin spruzzacchiati qua e là, fanno da contrappunto alla sua espressività vocale tanto impervia quanto carismatica.

Thomas canta, rantola, gorgheggia, sussurra, brulica, vagisce, singhiozza, tossisce. E guaisce alle stelle. Aleggia tra primitivismo, delirio e sublimità. Si dimostra interprete straordinario al pari di Waits, quello della trilogia di Frank, e di Cave, quello spiritato di “Your Funeral… My Trail”. Thomas è una sorta di Beefheart angelicato. Canta disperato come un bluesman ma senza il blues in fondo alla gola. Ossessionato dalla ricerca vocale e maniacalmente attento a non sforzare le note o prolungare eccessivamente le sillabe. Il suo lamento lancinante (anche quando è nascosto nei mormorii) è figlio del rock, ma astratto, tirannicamente legato al gesto artistico, risultando sia sfuggente che necessario.

“Erewhon” è un album di musica scarna, sdrucciolevole. Sorge a metà strada fra l’erudizione e la spontaneità. Un album ermetico, surreale, conseguenza di una totale libertà creativa. Distante anche dall’avant-rock dei Pere Ubu, scorre verso lidi indefiniti tra folk, jazz e cabaret, tutti stravolti, irriconoscibili, non già svuotati, piuttosto resi come sempre più intimi. Febbrilmente.

Last night I dreamed I was falling.
Where do we go, I said to myself,
If I call your name and you answer crying?

Se “Planet of Fools” è una sorta di valzer con tanto di theremin, “Morbid Sky” mostra una melodia malata e mutante fra singhiozzi di chitarra e stacchi di synth fino ai gemiti, non privi di sadismo, di Thomas stesi sopra strascichi dissonanti. La teatralità emerge dalla cruda “Fire” e dalla dilatata “Kathleen” (provenienti entrambe peraltro dal repertorio Ubu). “Obsession” è rock apocrifo privo di apici; “Lantern” è un magnifico lieder da camera inscritto in un lucido dormiveglia, mentre la conclusiva “Highway 61 Revisited”, che nulla c’entra con Dylan, rimpasta curiosamente sequenze e frammenti dei brani precedenti con anche rumori concreti (un trapano da dentista?). Si tratta, in definitiva, di musica inclassificabile. Selvaggia, stridula, scombinata.

Quello che Deleuze aveva rilevato del libro di Butler, come cioè il titolo rinvii non solo a No-Where (in nessun luogo) ma anche a Now-Here (qui e ora), evidenziando una sorta di doppia dimensione spazio-temporale che sigilla sempre l'impossibile realizzazione di una possibilità attuale, vale anche per l’album di Thomas. Ma la possibile impossibilità non ci paralizza obbligatoriamente. Descrivere luoghi e società inesistenti può coscientizzarci, liberarci dall’oppressione. E dove massimo è il rischio di perdersi, massimamente emergono le forze che ci salvano.

Sì. Questo non è il peggiore dei mondi di merda possibili.

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