Gli Snarky Puppy hanno (ri)aperto una strada.

Sono parecchi, ormai, i musicisti che hanno deciso di percorrerla nell’ultimo quinquennio.

E’ innegabile, a mio parere, visto il numero di band jazz-fusion che stanno nascendo tra States, Australia, Canada, Europa (anche in Italia con gli “Open Letter”) e stanno colorando l’arcobaleno musicale alla ricerca di un sound proprio, di concetti propri, ma che riesca a permettere il connubio tra solisti con la voglia di emergere e la brillante cura per gli arrangiamenti delle parti comuni.

La sperimentazione non è tanto nelle note da eseguire, quelle sono, ormai da tempo, quanto nel concepire nuovi suoni, nuove frasi, raramente in chiave citazionistica, e giocare, tanto, moltissimo sulle ritmiche.

In questo trend c’è una band che nel 2017 mi ha particolarmente reso partecipe nella loro creazione, si tratta dei De Raad van Toezicht (“Il consiglio di direzione”) che con “De Raad” (“Il consiglio”, appunto) hanno fatto il loro esordio nel panorama europeo.

Le loro qualità sono arrivate a diverse orecchie competenti, a quanto pare, dato che sono stati invitati con successo al North Sea Jazz (2016) e Montreux Jazz Festival (2017); un featuring importante (in questo 2018), quello di uno dei chitarristi più noti e musicalmente validi, ovvero Pat Metheny e la benedizione locale del prolifico trombettisti/compositore della terra dei tulipani, ovvero Ack van Rooyen (The Ramblers), oltre che del Rosenberg Trio, sono una mini assicurazione e garanzia di peculiarità.

I principali compositori sono il trombettista e flicornista Joël Botma ed il bassista, chitarrista e batterista Teun Creemers, ma tutti i brani sono scritti almeno a quattro mani, spesso a sei o otto, per dare l’idea di condivisione di questo groove e questo spirito gioviale che collega ogni brano.

La morriconiana “Wolfe” riempie l’album, esattamente come la scanzonata “Nowhere to go”.

C’è, invece, passionale liricità negli scambi tra il violino di Mirco Wessolly ed il piano di Jasper Mellema in “Maji”, ma è la ritmica che muove tutto, su armonie orientaleggianti (la minore armonica funziona sempre a dovere), mentre troviamo pura gioia e divertimento in “Snake”, condotti da una melodia pop-gospel (grazie all’aggiunta dell’organo di Philipp Frenzel) ad un finale che ti riporta incredibilmente, e con abilità compositiva, all’avanspettacolo anni ’50.

Spigliato il solismo di organo su un tema funky di ottoni (Yoran Aarssen al sax alto/soprano, Jesse Schilderink al sax tenore e Sam Thomas al trombone, oltre al già citato Botma alla tromba), delicato il violino, tetro e schizzatamente creativo il momento del chitarrista Dung Hoang (a mio avviso il miglior solista del gruppo) in “Beam”, che pare un pittore che prende colori dalla sua tavolozza e li schizza con sempre maggior vigore su una tela bianca, fino a creare, parlando di rifrazione, un alone notturno senza precedenti. E’ certamente uno dei tre “pezzacci” dell’album.

Jazz (“Anyone Seen Mike Hawk”), funk (“Praise the sun”) e Caraibi (“Loco Jardino”) potrebbe essere il titolo di un film, ma sono coreograficamente le sonorità principali che chiudono l’opera.

Torno precipitosamente all’apertura, perché è lì che scoviamo i brani migliori.

La funky guitar di Philipp Ullrich segna l’intro di “The Collector”. Al di là di un tema piacevole, con stacchi ben studiati ed armonizzati a sorprendere, in positivo, è da subito la capacità dei due batteristi. Janik Hüsch e Bouke Hofma riescono a far scollare dalla sedia l’ascoltatore al primo ascolto, facendolo muovere senza sosta. Tocco e groove micidiali per il duo di percussionisti che realizzano un passaggio a bossa nova strabiliante. Anticipano, muovono il solo stesso e vanno ad integrarsi in maniera mirabolante con il tema funky iniziale.

Chiudo il consiglio odierno con la mia traccia preferita: “Londinium”. Una traccia che compare senza enormi grattacapi ritmici, stagliandosi inizialmente con tinte pastello-violacee, con un gusto magnifico su un foglio pentagrammato. Il tema è lì, riconoscibile, lo puoi toccare con mano, ne puoi godere con l’udito e ti fa stare bene. E’ un paesaggio suonato, non dipinto, immaginabile tra l’indaco ed il blu, gradevole da disegnare vocalmente, variando la tinta mediante la timbrica, sino ad un cambio deciso di scenario scandito dal basso continuo di pianoforte. Un deciso verde. Parte un’escalation che fa scoppiettare, su sfumature calde, la parte emozionale del nostro io, fino a rientrare in quell’arpeggio ed in quella melodia principale che ti ha fatto cominciare a battere il cuore, un po’ più serenamente.

Questi 12 olandesi hanno creato un’esperienza acustica, un arco colorato, che mi sento di consigliare caldamente.

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