È capitato spesso che nelle epoche attraversate da profondissime crisi, si siano raggiunte vette artistitiche mai toccate prima. Un po', per esempio, come quanto accadde per l'arte romano-bizantina prima della caduta dell'Impero Romano, oppure per la nascita del movimento artistico-letterario del "Decadentismo", sfruttando il travaglio interiore della figura dell'artista.
Così capita nella musica, con musicisti che arrivati ad un punto critico della loro carriera sfornino l'album della salvezza. Per i Deep Purple, però, è un altro discorso: loro vivevano nel successo, forti dei trionfi di "Machine Head" e "Made In Japan". Vi erano, però, i ben noti problemi all'interno del gruppo, le ferite non più sanabili tra Ritchie Blackmore e Ian Gillan. Le posizioni erano radicali quanto potevano essere quelle dell'MSI e il PCI in Italia negli anni delle contestazioni (con i dovuti limiti del paragone). Fosse stato per i due, le loro strade si sarebbero divise molto tempo prima, ma gli obblighi contrattuali li impegnavano a terminare i tour intrapresi. E proprio sul palco da un lato erano accantonati tutti i problemi esterni, ma dall'altro non mancavano le continue frecciate dell'uno con l'altro. Insomma le cose non andavano per niente bene.

Intanto c'era una tournee da portare avanti, prima di poter cominciare un nuovo corso. Live ufficiali della Mk 2 dopo "Made In Japan" non ne furono pubblicati, ma, fortunatamente, ci sono i tantissimi bootleg (meno male che non li hanno mai criminalizzati!) che completano l'infinita discografia dei Deep Purple. Registrazioni che ci fanno comprendere come questi cinque artisti del Rock potessero suonare magnificamente nonostante non si parlassero neanche.
Il Giappone, poi, era diventata la seconda terra del gruppo britannico ed è proprio lì che viene registrato "Destroyed The Arena Budokan", il 25 giugno del 1973. La scaletta è dannatamente breve, comprende solo sei brani e per dirla tutta sono gli storici brani che i Deep Purple inserivano in ogni concerto: "Highway Star", "Smoke On The Water", "Strange Kind Of Woman", "Child In Time", "Lazy" e "Space Truckin'", tutte e sei estese fino all'eccesso.
E allora l'ascoltatore medio potrà, giustamente, chiedermi: "Francè, abbiamo ascoltato “Made In Japan”, cosa altro possiamo aspettarci?". Bella domanda, ma io ho la risposta: i Deep Purple non sono mai banali, mai ripetitivi, ogni concerto è diverso dall'altro, non potrai mai annoiarti. Anzi, se sei fan dei Deep Purple vuoi sempre di più, vuoi sempre sentire versioni nuove, non ti accontenti mai.

Eppoi ci sono sempre quelle piacevoli piccole differenze che rendono l'idea sull'evoluzione artistica della band. A cominciare da "Highway Star": un'apoteosi rumoristica precede la batteria di Ian Paice, più veloce che mai. Jon Lord nel suo assolo è più gotico e imponente di sempre. Già dall'inizio, inoltre, si notano le prime vertenze Blackmore-Gillan, col cantate che tenta di imitare l'assolo del "Man in Black" che, per tutta risposta, lo suona più rapido e più alto nei toni. Iniziamo bene.
Blackmore nelle ultime date coi Deep Purple s'è sempre mostrato svogliato, ma ha in ogni modo cercato di attirare l'attenzione su se stesso ed ecco che inaspettatamente inserisce un intro di chitarra sia prima di "Smoke On The Water" che di "Strange Kind Of Woman". Blackmore ricostruisce e riplasma ancora di più il suo stile chitarristico amplificando vecchie componenti verso uno stile ancora più sontuoso, epico, raffinatamente melodico, ma anche un po' più pulito, con l'incorporazione sempre più marcata di soluzioni mediorientali (come nella conclusione dell'assolo di "Smoke On The Water"). In "Strange Kind Of Woman", invece, si compie la battaglia all'ultimo sangue (anzi nota!) tra chitarra e voce, senza esclusione di colpi bassi!
Si ritorna seri con "Child In Time", la canzone migliore per testo del gruppo inglese, una canzone splendida: ballad e hard rock allo stesso tempo: un inizio dolce, malinconico ed evocativo che sfocia in un rabbioso assolo di Blackmore, una furia elettrica che poi si ammansisce e nella "quiete dopo la tempesta" si termina, così come cominciato, questo brano.

Non pensiate, però, che i Deep Purple siano solo Blackmore e Gillan! Adesso la scena la prendono gli altri tre membri del gruppo. Jon Lord introduce come solo lui sa fare "Lazy": l'Hammond di Lord disegna note e melodie uniche, con richiami alla "Fanfare of The Common Man" e passaggi blues. Questa versione è ancor più rapida, uno sfrenato blues 'n' roll, per poi essere travolti dalla furia omicida di "Ian Paice on the drums".
Il tempo di rifiatare, silenzio assoluto e inizia a farsi largo un'incessante percussione di hi-hat, il "Maestro" Lord suona le celeberrime note dell'ouverture di "Also Sprach Zarathustra" di Strauss. Il preludio perfetto per il riff megalitico di "Space Truckin'", in una lunghissima versione di oltre venticinque (25!) minuti, alternati dalle urla di Gillan e dal tocco gentile di Blackmore, dall'assolo di basso di Glover che riprende il ritornello principale della canzone eppoi spazio di nuovo a Jon Lord per il suo assolo, coadiuvato dalla premiata sezione ritmica Paice-Glover. Il Maestro fa di tutto e l'impossibile, ci dimostra come la figura del tastierista possa essere dannatamente Rock e imponente, essenzialmente epica, capace di variare richiami neoclassici (immancabili) e fraseggi molto più psichedelici e rumoristici. Una cavalcata che lascia l'ascoltatore attonito.

Due minuti o poco più di un ipnotico Blackmore per riposare ed è il trionfo finale, la "Tempesta". Il finale dell'opera è adrenalinico, la trance musicale possiede i cinque musicisti, la loro esecuzione non conosce ostacoli, è come un treno in fuga senza freni. Poi lo schianto e, finalmente (o purtroppo), il concerto finisce.
Accidenti che concerto! Per questo motivo ascolto e non mi stancherò mai d'ascoltare i Deep Purple, perché sono immortali.

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