Sfogliando tra le pagine di questo spettacoloso ricettacolo di parole che descrivono suoni, mi sono accorto che manco io. E soprattutto manca una delle memorie della mia adolescenza: quello che vi propongo non è un genere che ascolto, i Deep Purple non sono una formazione che seguo, The Book Of Taliesyn non è commercialmente tra i loro migliori album e sicuramente non è il più godibile ad un primo ascolto.

E allora? - direte voi - E allora vorrei lo stesso portarvi indietro nel tempo a (ri)ascoltare questo sublime esempio di musica pensata scritta e interpretata "generosamente". Fu il mio attuale bassista a darmi un nastro contenente questo album risalente al 1968 (l'album, non il nastro). Non ricordo le emozioni provate ai primi ascolti, ma è un album che mi è entrato nelle vene e riascoltandolo provo la piacevole e rassicurante sensazione che ho toccando il culo della mia femmina.

Quando scrivo di "generosità" intendo la capacità di una formazione di darsi ed esporsi senza ritegno e censure, quell'aria da "buona la prima!" dopo una take approssimativa ma irripetibile in uno studio di registrazione un po' alcolico. E a proposito di dettagli da studio: questo è L'ALBUM della prima storica formazione nota come Mark I: Evans alla voce, Blackmore alla chitarra, Simper al basso, Lord all'hammond e Paice alla batteria.

La cornice ha qualche inquetante richiamo a bardi medievali, ad antichi libri e alla corte di Re Artù, con tanto di copertina che sembra un lavoro di Hieronymus Bosch. Sappiamo poi tutti quanto in basso sia finito Blackmore in tempi recenti co sta cazzo di mania per il medioevo... Vabbè, tornando al disco, qua e là troviamo sparse, insieme a pezzi originali, alcune rivisitazioni in chiave tipicamente deeppurplesca o deeppurpliana, fate voi.

Giusto per pedanteria (non credo ce ne sia bisogno) per una definizione dello stile dei Deep Purple di Mark I basti dire che sulla potente base ritmica si inescano gli intrecci sempre più consapevolmente complementari di Lord e Blackmore, due musicisti provenienti da formazione classica ma con gusto tutto moderno per la sperimentazione di suoni e cambi di tempo aggressivi e atmosfere che piano piano si svincolano dal beat marcio comune ai primi Pink Floyd e anche dal neoclassicismo che imporrebbe la situazione. Forse è proprio questa la grazia infinita di questo album: lo stare in precarissimo equilibrio tra nuovo e tradizionale, tra hard rock e beat, tra psichedelia e neoclassicismo. Insomma non vale la pena snocciolare nomi di generi musicali che alla fine non riescono a rendere l'idea di un lavoro per niente coeso e coerente.

Come si fa a non amare la voce di Evans piena di reverbero nella prima traccia? In "Listen, Learn, Read On" (you gotta turn the page, read the Book of Taliesyn!) c'è già tutto e il contrario di tutto: la sezione ritmica riconoscibilissima, Lord che qui si limita a sostenere l'impianto armonico per i riff elementari di Blackmore e ...dios mio, i suoi assoli da assoluta delizia, sempre alla ricerca della cinquantacinquesima nota o qualcosa del genere. Sul testo del brano è meglio sorvolare, un'idiozia totale, ma rientra nel concetto di "darsi senza ritegno" suppongo.

Anthem è uno dei più bei pezzi dei Deep Purple a mio giudizio: atmosfere cupe, ottima melodia e armonia anche se un po' barocca, ottima esecuzione aiutata da un accompagnamento orchestrale, grandioso Lord che qui prende il sopravvento.
Hard Road (Wring That Neck) è una divertente quanto virtuosa blues jam che dal vivo diventava spesso una mostruosità da 30 minuti, qui si nota maggiormente il particolare intreccio che Lord e Blackmore sapevano creare, rispondendosi e richiamandosi e riprendendo il tema principale per aggiungere ogni volta qualcosa in più. Shield è un'altro dei migliori pezzi progressivi in cui si possono godere tutti i diversi componenti della band darsi al massimo: molto suggestiva, ottime armonie permeate da quell'aria di gioco che sdrammatizza e rende il tutto sublime.

Più standard è invece, tra le cover, Kentucky Woman, interpretazione che ebbe maggiore successo in USA e che propone un hard rock più canonico e magari più radiofonico. Exposition/We Can Work It Out è un'altra cover acidificata alla quale è stata appiccicata una intro assolutamente inutile, niente di particolarmente entusiasmante se non lo spirito stesso, giocoso, col quale i cinque si misurano con uno "standard".

Concludo questa mia prima recensione con la cover che da sempre sogno di aver inciso io: River Deep Mountain High, che comincia con una citazione della famosa "Also Spracht Zarathustra" di Strauss. A mio parere qui è riassunto tutto lo spirito dell'album, e si aggiunge qualcosa in più alla affascinante personalità della chitarra Blackmore, il mio eroe personale: lo seguiamo disegnare ampi cerchi che man mano si restringono, salgono e scendono ipnotici per dissolversi in picchiate mozzafiato, sempre in equilibrio costante sull'orlo della stonatura e chissà quali scale modali a noi ignote. Una rinascita

Bene, so che il mio attaccamento a ogni singola nota appena descritta è qualcosa che va al di là della musica, ma spero di avervi incuriosito. Questo album è spesso sottovalutato a causa della "fretta" con cui è stato prodotto, ma facendo così si commette l'errore di cadere nella stessa odiosa trappola: la "fretta" nel giudicare

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