Stavo per andare a dormire deluso, dopo mesi di attesa questo Dune mi ha lasciato un po' di amarognolo in bocca, perché in due ore e mezza facciamo giusto in tempo a entrare nell'universo di Herbert, e poi arrivederci chissà a quando. Ma ora, come per un'epifania, quasi avessi inalato qualche particella di spezia, ho compreso le intenzioni di Villeneuve.
La sottrazione di contenuto a cui assistiamo con questo film, che copre forse metà del primo libro, non è altro che un arricchimento, un lavorare sui dettagli, cesellandoli con cura e amplificando le percezioni, perché prima dei fatti Dune è nelle ambientazioni e nelle sensazioni, la sua essenza aleggia nella sabbia del deserto. Una cura e una devozione che sono diretta conseguenza dell'enorme rispetto del regista per il romanzo.
Il lavoro di sottrazione è sempre quello più difficile e costoso, specie di questi tempi, ma il nostro ci ha abituato a un'attenzione non banale per le sue creature. E allora se affrontare Dune per sommi capi lo avrebbe reso un blockbuster non troppo diverso da tanti altri, il cineasta rallenta, dilatando alcuni momenti quasi fino allo spasmo: si prova quasi una fatica, tutto il peso delle vicende precipita sulle nostre percezioni di pubblico che freme nel buio della sala. L'ambiente, l'oscurità, la profonda problematicità di ogni cosa danno alla narrazione un senso di soffocamento, proprio come se fossimo anche noi su Arrakis.
Lunghe sequenze nel deserto, notti tragiche, un lento morire, clangori infernali che vomitano terrore negli angoli più oscuri di questo universo. Vermi che divorano le nostre percezioni, un'aridità che si fa spazio nei nostri cuori. Un film d'autore. Villeneuve sembra suonare le scene con un archetto da violino, e rallenta i gesti fino a trasformare la melodia in un cupo rantolo. Qui a letto, mentre scrivo, dopo l'iniziale senso di incompiutezza rivivo i presagi di Paul, tremo con Jessica e mi sento soffocare con il duca Leto. L'avidità degli Harkonnen e il risentimento dei Fremen sono penetrati in me lentamente, li sento sottopelle. So che la battaglia, la guerra, sarà consacrata alla fede in quel cinema che (in pochi casi illuminati come questo) non accetta le soluzioni facili. Film come rebus, non ti danno tutto quanto, chiedono a te di dare qualcosa, di sentire qualcosa.
Per il resto, soprattutto nella prima metà il mio pensiero costante era rivolto alla forza incredibile della visione di Villeneuve. È sconvolgente la compiutezza (mi verrebbe da definirla aurea) che emerge da ogni inquadratura. Cinema che non è una giustapposizione di contenuti narrativi, ma un dipingere su pellicola, veicolando attraverso il non detto delle immagini una serie di filigrane di significato. Ogni dettaglio parla, ogni scelta ha delle conseguenze (a volte ignorate) nella testa di chi guarda. I dipinti di Denis ci sussurrano cose. La forma di un'astronave, gli abiti indossati dalle popolazioni, l'austerità dei palazzi, la vastità del deserto: l'arte cinematografica - quando è pura - sa compulsare ogni dettaglio, ogni oggetto, ogni ambiente per ricavarne un significato. Dipende sempre dalla profondità dell'occhio che guarda.
E qui c'è tutta l'energia e la poesia di un regista che non dà nulla per scontato, quando apre l'obiettivo e plasma la sua visione, unica e irripetibile. Soprattutto nella prima parte del film, quando l'azione è più blanda, davvero ci si perde nella bellezza e nell'originalità di ogni sguardo d'autore. L'occhio di Villeneuve riscrive le sequenze, eliminando ogni possibile cliché della messa in scena, magari frutto di una codifica di genere precedente. No, lui guarda con occhi nuovi.
Ma non basta, e allora getta nei nostri timpani quella colata lavica che è la colonna sonora di Hans Zimmer. Perché è necessario stordire anche il nostro udito, lo stimolo di un altro senso gli consente di andare oltre, e arricchire ulteriormente le nostre percezioni, già ferocemente soggiogate nella componente visiva. Ci inebria, ci soffoca con la visione di Arrakis, ma a piegarci, a metterci in ginocchio sono i barriti terrificanti affidati a Zimmer.
Non è un film scorrevole, questo è ovvio, non è facilmente intelligibile, come non lo è il libro. La gestione dei personaggi secondari è discutibile (forse l'unico errore vero del regista) e anche il ritmo è forse eccessivamente... pachidermico. Il troppo amore in alcuni aspetti ha portato a una pesantezza che non sempre (quasi mai) è ripagata da un portato effettivo in termini di contenuti. È una prova dura, senza immediato riscontro, come quelle a cui è costretto Paul. Un film decisamente fuori dal tempo (e non è un difetto), memorabile per certi versi, quasi un manifesto di una nuova (ritrovata) sensibilità e rispetto per quest'arte, che non può pensare di vivere (o sopravvivere) se non sa più essere esigente con se stessa e con il suo pubblico.
Carico i commenti... con calma