"The Track of the Hunted" esce nel 2000 e può essere a ragione definito come l'album della definitiva consacrazione di Albin Julius come genio industriale assemblatore di suoni e suggestioni.

Meno dispersivo, e senz'altro meglio orchestrato del precedente "The Pleasures Received in Pain", "The Track of the Hunted" recupera la compattezza dei primi lavori, una compattezza che però viene riletta alla luce di un'accresciuta padronanza dei mezzi. A colpire, più che altro, è la forza drammatica che acquisiscono le cupe evoluzioni delle macchine di Julius, una forza drammatica che non trova eguali nel percorso artistico dei Blutharsch, tanto che si può parlare, se non di capolavoro, di certo del lavoro più riuscito del panzer viennese.

La tracotanza marziale, la violenza guerrafondaia, gli ululati propagandistici qui cedono il passo alla desolazione di un post-industrial maggiormente meditato e più finemente calibrato in tutte sue consuete componenti (elettronica minimale, campionamenti industriali e digressioni ambientali): un'attitudine più evocativa, potremmo dire, solenne, a tratti rituale. Un rito perverso che si consuma fra la nebbia e il gelo di un campo di battaglia dissestato e silente.

"The Track of the Hunted" fonde così Bello e Morte, mai in precedenza così intimamente intrecciate, e si presta all'ascolto come un oscuro e fuligginoso, fumoso ed impalpabile, desolato e desolante monolite di acciaio rugginoso e sangue rappreso, un viaggio al termine della notte via via "rischiarato" da voci sporadiche e timide incursioni di strumenti acustici (una chitarra, un violino e poco altro) che vanno ad anticipare il progressivo processo di "umanizzazione" che investirà la musica dei Blutharsch a partire da "Time is thee Enemy!", prevalentemente suonato e contaminato da sonorità più canonicamente neo-folk (per non parlare dei recenti "When did Wonderland End?" e " The Philosopher's Stone", che osano abbracciare stilemi più tipicamente rock!).

Da un ottica strettamente formale, il "punto debole" si rivela essere l'intento, non sempre impeccabilmente coronato, di voler inserire nell'impalcatura elettronica il suono vivo delle voci e degli strumenti suonati.

Ma a parte questo rilievo, che rimane la croce di sempre della musica dei Blutharsch, è lampante come la mano di Julius si sia nel frattempo affinata, come "bisturi" e "filo di sutura" vengano da essa maneggiati con maggiore padronanza che in passato. E come, conseguentemente, la stratificazione di significati e simboli si sia inspessita ed arricchita di una maggiore complessità.

Si pensi al brano introduttivo, dove lo stappar di una bottiglia e il riverbero del vino che colma con la sua massa un calice vanno a celebrare il rito propiziatorio che apre ad un transfert rivolto ad un passato oscuro ed ottenebrato dall'orrore della guerra. I cori da operetta e il fragore lontano di una sirena che annuncia l'imminente raid aereo sono segnali eloquenti: la destinazione è la seconda guerra mondiale, rievocata da irriducibili nostalgici, ex gerarchi del partito nazista riunitosi nel chiuso di un lugubre salottino tappezzato di svastiche e reperti del Terzo Reich gelosamente conservati e devotamente messi a lucido.

Inutile dilungarsi, in tutto e per tutto Julius rimane fedele al suo proposito: quello di trasporre in musica foschi scenari di guerra, rileggendoli però in chiave romantica, alla stregua di un novello Wagner in versione industriale. Non è un caso, infatti, che il compositore classico sia indicato da Julius fra le sue più importanti influenze, assieme al nostrano Morricone.

E proprio con le orchestrazioni del celebre tema di "Per un pugno di dollari" si apre quella che può essere definita una delle migliori composizioni di sempre dei Blutharsch: parlo della seconda traccia (come tutte le altre, senza titolo), dove gli archi diretti da Morricone diventano una marcia straziante; dove al posto del celebre assolo di tromba a dilaniarci è il canto tragico di una donna, presto accompagnata dall'oblio delle tastiere e da un'oscura voce narrante; dove rintocchi di percussioni funeree e il violino dello stesso Julius si vanno ad incuneare fra i loop industriali mimando il passo tragico e stanco di eserciti che si avviano verso il loro annientamento.

Se questo, diciamo, è il meglio che ci possiamo aspettare, il peggio risiede senz'altro nella nona traccia: un'idiota canzoncina tedesca sulla falsa riga di "Faccetta Nera", soluzione non nuova in casa Blutharsch. Una scelta, questa, molto opinabile, che se da un lato va a rimarcare la coerenza ideologica dell'artista, dall'altro va senz'altro a corroborare le tesi infuocate dei suoi detrattori.

E in questi due estremi risiedono i pro e i contro dell'opera, il cui giudizio diviene difficilmente formulabile: se da un lato la maturità compositiva raggiunta dall'artista fa propendere per una valutazione senz'altro positiva, zero è indubbiamente il voto che merita chiunque decida di celebrare, al tepore confortevole del proprio salotto, gli orrori indicibili della guerra.

Dalle mie parti si dice "fare il finocchio con il culo degli altri".

P.S. ho di recente cambiato casa e lavoro: nella prima non ho internet e nel secondo mi tocca perfino lavorare, tanto che non ho tempo di stronzeggiare in rete nemmeno durante la pausa-pranzo. Questo per dirvi che avrò tempo di guardare la posta non prima del prossimo week-end e la mia speranza è quella di non trovarmi 800 messaggi con scritto "basta con questi fascisti di merda".

Lo do per scontato.

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