Il ragazzino si è fatto uomo. Ha iniziato a usare il balsamo per capelli, frequenta gente giusta, evidentemente uno stilista giusto tra di essi, ha (aveva) una fidanzata strepitosa e si è pure fatto la passerella di Cannes. Ha pure fatto soldi che gli permettono di registrare dischi con qualcosa in piu' di voce-chitarra e molte idee (quelle che il denaro, ahimè, non compra!).

Questo "Smokey Rolls Down Thunder Canyon" è evidentemente un album ambizioso, complesso e ricco di suoni, riferimenti, idee anche molto lontane tra di loro, diverso da quello a cui siamo stati abituati, che sicuramente ha fatto storcere il naso a più di una persona. Infatti ci sono una serie di cose che sono state abbandonate, primo di tutti, il dono della sintesi (ci sono pezzi da otto minuti!), quel cantato-vibrato che faceva tanto vagabondo che salta sui treni a vapore degli anni 20, e certe atmosfere intimiste/minimaliste dei primi album, che avevano un fascino enorme. Che questo sia un male o no, sta ai gusti, e-sto per dire un'ovvietà-è sempre meglio comunque che un artista cerchi nuove direzioni, rispetto a ricalcare all'infinito gli stessi schemi.

Ci sono tante cose nuove in questo disco. Innanzi tutto i suoni sono semplicemente favolosi. Non so ancora come siamo riusciti (registrazione e masterizzazione tutta in analogico? strumentazione d'epoca? o molto semplicemente, vagonata di soldi?), ma tutto suona bellissimo, le voci, le chitarre, le percussioni: i riferimenti sono, tanto per cambiare, i soliti anni 60, ma il disco suona comunque moderno, e caldo, e ammaliante.  Poi la ricchezza, non solo dei suoni, ma anche compositiva: ci sono tracce di tropicalismo ("Samba Vexillografica" uno dei pezzi migliori del disco), un morbido reggae ("the other woman"), addirittura un vero gospel ("Saved", il titolo in effetti non mente), una infinita dilatazione psichedelica ("Seahorse"), alcune malinconiche ballate al pianoforte ("I remember"), e altre più eteree e impalpabili ("Freely" e "Seaside").  Il passato è sempre il riferimento più forte, quindi assistiamo alla resurrezione dei T-Rex nell'inusuale pezzo rock "Tonada Yanomaminista", al resuscital del primo funk elettrico di Prince in "Lover" (ma Devendra è un bel po' più appetibile, quando canta: "I wanna mesmirize your ass") e, naturalmente, il fantasma di Donovan, di Nick Drake e spesso dei Doors, ovunque.

Siccome a Devendra di prendersi sul serio non riesce proprio, (e menomale, è decisamente una buona idea), tira fuori dal cilindro un pezzo alla Burt Bacharach ("So long old beam") nonché "Shabop Shalom",  che è sì, un po' idiota, ma è deliziosa ("Honey, when it comes to love/There's a fire in the deep bend of my heart/Givin' me the heeby-geebys"). Non manca poi un conga/salsa anni 60, assolutamente irresistibile (sì, anche questo un po' idiota) "Carmensita", correlato di un videoclip assolutamente esilarante e assurdo.

Riesce tutto ciò a far davvero funzionare il disco? In parte no. In alcuni momenti c'è davvero troppo, è troppo ampolloso, troppo pretezioso, o solo troppo-troppo e a volte un pò calligrafico; funziona più a trovate che ad illuminazioni e prevale il "ah, che ridere, sta mettendo anche il suono delle scimmiette" rispetto a "questa melodia è bellissima e mi stende". E poi, il vero problema è la lunghezza: in più di un ora di ascolto, l'attenzione scema, la noia sale e a parte alcuni episodi esaltanti, non si può dire un lavoro del tutto riuscito.

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