I fedeli lettori del nostro giornale spaziale, a cui capita talvolta di imbattersi nei miei capricciosi giudizi, sanno quanto poco ami la musica italiana. Sia chiaro, non trattasi di supponenza. Ho tutti i classici in edizione vinilica ed ho visto dal vivo i gruppi storici dagli anni '80 in poi (troppo giovane per aver surfato l'ondata progressive) innumerevoli volte, alcuni anche in una decina di occasioni, magari più di una data nello stesso tour. Negli ultimi anni, ritenuta, in linea di massima, bollita la scena degli anni '90 (è una sorpresa l'ultimo Afta, che gira che è un piacere) e assolutamente insopportabile quella post-rock dello stivale, seguo giusto due o tre personaggi (taccio, per ragioni di pudore anagrafico, delle mie latenze per Roberta Sammarelli). Dei Bachi da Pietra ho già avuto modo di cantarne le lodi in un paio di scritti. Di Theo Teardo posso dire che lo ritengo autore di film scores di livello internazionale. L'altro pezzo da novanta è, per la mia onesta e modesta opinione, Diego Mancino.

Chi è costui, si domanderanno gli ignari. Un lodevole cantante pop, potrei brevemente rispondere. Ma già il termine pop implica una serie di congetture alle quali non sono in grado di rispondere. Avendo deciso di essere prolisso, e superfluo, mi permetto di tornare all'inizio. Cos'è che, in generale, non mi fa apprezzare, la musica, intesa nella sua forma canzone, italiana? Che, nella maggior parte di casi, è troppo emulativa di quella anglosassone. Per farVi un esempio, anche se, nel corso di una recensione, è prassi assolutamente fessa, alcune mattine fa ho sentito il nuovo singolo di Meg. Mi è parso un pezzo di Bjork di dieci anni fa. Perchè mai dovrei ascoltare una cosa, fatta peggio, stantia di due lustri? Anche perchè ritengo sia assolutamente possibile arricchire i suoni che provengono dall'estero con la nostra, intesa come italica, sensibilità, crogiuolo di sapori mediterranei e decadenza mitteleuropea. E ciò al fine di creare musica che non sia pedissequa deriva di mondi altrui, ma sia mondo nuovo, senza identità definita, come il giovane Arsenal di Wenger.

In ciò riesce, mi pare, Diego Mancino. Che scrive canzoni che hanno sì, talvolta, profumi beatlesiani ("Satellite"), altre, reminiscenze degli anni settanta quasi floydiane ("Soli Non Si E' Mai"), ma, infine, appare come scrittura pop tout court, senza luogo, se non una milanesità che è però mero punto di origine. Incidere ottime canzoni melodiche evitando la ripetitività e la bolsaggine, è impresa che sempre mi affascina. E, sì, ogni tanto, non essendo morto prima di diventare vecchio, mi piace ascoltare anche qualcuno che abbia un bel timbro e sappia cantare.

E così, in questa primavera quanto mai uggiosa, che solo ora appare aprirsi, i miei lenti risvegli, mentre mi domando perchè le cose non stiano mai al posto giusto, sono accompagnati da questo disco. Che, per almeno pochi istanti, mi fa credere che tutto andrà bene.

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