C'è un poeta nel bosco ed è un poeta in disarmo. Ancora pochi mesi e finirà in manicomio.

A un certo punto, a metà di un piccolo sentiero, il poeta incontra un rospo. E, anche se può sembrar strano, è come guardarsi allo specchio.

Avete mai parlato con un rospo? Immagino di no. Parlare con un rospo è una cosa abbastanza da pazzi. Soprattutto se in realtà state parlando a voi stessi.

“Povero Dino. Non restare in mezzo alla via, ti schiacceranno”. Una piccola frase che è una trafittura di tenerezza. Io mi immagino un silenzio incantato, una specie di dolcezza triste, un prendere atto.

Ecco, quando penso a Dino Campana, il rospo/poeta (o il poeta/rospo) è la prima cosa. La seconda è Faenza. Che è Faenza il luogo dove "del tempo fu sospeso il corso" E' a Faenza che cominciano i Canti Orfici

“Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani”.

Faenza è a quindici chilometri da casa mia. E' un attimo arrivarci. Bene , posso dirvi allora che la torre, seminascosta dalle case, non domina più. E che all'inizio del viale, vicino al cinema all'aperto, han messo una specie di targa : “Dino Campana a Faenza”. Ne han messa una anche in piazza, e han fatto proprio bene, fu li che Dino vide “un viso bruno aquilino di indovina uguale a la Notte di Michelangelo”.

Ecco, volendo, avremmo già tutti gli elementi, la sospensione del tempo, la visione, un linguaggio ora arcaico, ora modernissimo. E un rospo. Un rospo che si farà schiacciare...

Poi c'è la terza cosa e la terza cosa è un florilegio di trafitture sparse. Decine e decine di versi che potrei elencarvi e che arrivano a pioggia. La quarta cosa invece è Imola, la mia città. Qui Dino fu ricoverato in manicomio per la prima volta. Non aveva che vent'anni.

Ecco, la vita di Dino Campana è una sorta di tragedia perfetta, di quelle dove non manca un ingrediente che uno. Io però non vorrei parlarvene.

Io vorrei parlarvi della sua poesia.

Certo, non che non contino i pessimi rapporti con la madre, il puro poeta contrapposto al canagliume di Marradi, il genio straccione preso in giro dagli scrittori alla moda, l'eterno riparare tra boschi e montagne, gli arresti, il manicomio, la sifilide. Contano, contano eccome.

Solo che poi si casca sempre sul naif, sull'enorme panzana del genio folle. Il solito mito da due soldi buono solo ad oscurarne la grandezza poetica. Del resto, quando la follia è arrivata davvero, Campana non ha più scritto un solo verso. E sono strazianti le lettere dell'ultimo anno quando, a più riprese, racconta di come la poesia lo avesse ormai definitivamente abbandonato.

Il problema è che l'originalità dello stile è stata spesso derubricata a sintomo. Ma le continue ripetizioni, le asperità sintattiche, l'aggettivazione forsennata, il periodare fluviale, non rappresentano affatto il caos di una mente perduta. Sono anzi frutto di continui ripensamenti, di un incessante lavoro di cesello e di riscrittura, dove, nel tentativo di mettere ordine, risplende la poesia nel suo farsi. Il caos semmai viene raccontato, ma chi racconta lo fa nel pieno della salute, o almeno di tutto ciò che a fronte di quel caos è ancora salute. Insomma la poesia, fin che può, salva la vita.

Non solo, Campana lungi da essere il barbaro, il gran selvaggio, il dilettante di genio, era invece uomo di raffinatissima cultura, uno in costante dialogo con le anime affini che si era scelto. Solo che se ne stava ben lontano dalle chiuse stanze e aveva come casa la strada, la polvere, la luce, gli elementi della natura.

Con la poesia che finalmente respirava, prendeva aria. Grazie anche a una specie di entusiasmo contagioso, una sorta di amore/devozione, per quella che per lui era la dea del ricordo, l'antica chimera, la grande amica, il grande sogno, l'oblio.

Imbevuto di Dante, Michelangelo, Leonardo (evocati continuamente nelle sue pagine), profondo conoscitore di Goethe, Nietzche, Baudelaire (che leggeva tra l'altro in originale avendo egli acquisito, grazie ai viaggi, una discreta padronanza in almeno cinque lingue) era tutt'altro che un poeta naif.

Ma veniamo al senso, al profondo significato dell'opera.

Campana, nel poema in prosa “la Verna”, descrivendo una annunciazione di Andrea Della robbia, dice che l'angelo “appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno”...

E' una frase chiave, perché tutta la sua poesia è esattamente quello scorcio, ovvero quella particolare sospensione, che consente l'irrompere della visione o del ricordo.

Tutto ridiviene antico e le cose sono quel che sono da sempre...

“La più potente anima seconda frange le nostre catene”, le visioni gettano un ponte sull'infinito.

“Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull'infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?”

Ma quel che è più straordinario è che i canti Orfici sono pura poesia in movimento. Una specie di cinema sulla pagina scritta. Un lungo peregrinare fuori dal tempo, dove tutto rimanda ad altro, dove passato e presente si confondono in una libertà espressiva che lascia senza fiato...

E ora torniamo a quel rospo...alla lettera scritta a Giovanni Papini, quattro mesi prima del definitivo ricovero in manicomio a Castelpulci.

Tenetevelo a mente questo nome, Giovanni Papini, uno dei tanti “coperti del sangue del fanciullo”, ovvero il sangue di Orfeo, il sangue di Dino. E, se volute saperne di più, segnatevi questo nome, Sebastiano Vassalli, e questo titolo, “La notte della cometa”.

Ma ecco l'estratto della lettera:

“Come un fauno deluso prendo il ghiaccio dell'acqua di un bacino sotto una cascatella montanina. Il sole non s'affaccia ancora dietro i castagni. Incontro nel ritorno l'amico notturno crapaud, (il rospo) illuso dalla freschezza dell'acquazzone. Povero Dino. Non restare in mezzo alla via ti schiacceranno. Ma lui resta in mezzo alla via. Sono nate fuori le cavallette e mi saltano intorno con le ruote rosse. Pure in tutto c'è una certezza che io...”

Ecco, quella certezza è la follia. Quella vera.

Campana non scriveva più versi da tempo. Sentite però, sia pure in uno stato di completa disillusione, quanta capacità descrittiva, sentite quanta luce...

Sentite quanta vividezza ancora.

E allora io penso che questa felicità che non è più dica la felicità del passato. E che Dino Campana, a fronte di una vita tragica, sia stato comunque un uomo felice...

Felice di una felicità, magari rapsodica, magari sfuggente, ma in certi momenti persino troppo grande.

Talmente grande che quelli che son sempre dove ti aspetti non potranno mai capire...

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