Ronnie l'aveva già capito: dotato di una non comune intelligenza e sensibilità, percepì che, dopo il ciclo con i Rainbow e quello con i Black Sabbath, anche quello con i Dio era arrivato al capolinea, e lo disse a chiare lettere nel testo della sua "My Eyes". Il cantante e songwriter icona dell'hard rock epicheggiante sentiva di dover finalmente rivolgere il suo sguardo più avanti, al futuro, con un occhio più disincantato e sonorità più taglienti e moderne. Nel 1992 le strade del Nostro e di Tony Iommi si incrociano per la seconda volta: il risultato è "Dehumanizer": Dio esprime la sua nuova verve lirica nei testi di "Computer God", "I" e "Letters From Earth", ma l'album non convince affatto: è un'opera di compromesso; Tony Iommi non è più il chitarrista giusto per Ronnie James Dio, per esprimere concetti nuovi ci vogliono persone nuove, ad ecco che i Dio ritornano in scena: Ronnie James, il fido Vinnie Appice alla batteria e l'ottima new entry Jeff Pilson al basso. Per ricoprire il cruciale e delicatissimo ruolo di axeman, l'illuminato frontman sceglie il carneade Tracy Grijalva: Troppo netto il taglio con il passato, troppo "progressista" la strada intrapresa dalla band per ambire a gratificazioni commerciali, "Strange Higways" del 1994 segna un impressionante salto in avanti rispetto al sabbathiano "Dehumanizer", sui cui semi si è tuttavia sviluppato: più veloce, più massiccio, più convinto, più ispirato e soprattutto più coraggioso.

I testi di questo album parlano di religione, decadenza culturale, abusi, violenza e paranoia, quello di "Strange Higways" è un mondo buio, freddo, senza regole né morale, in cui non vi è spazio per la gioia e la bontà, e neanche per un piccolo sorriso: l'artista non è insensibile a tutto ciò: la sua voce, tolte un paio di parentesi melodiche è un urlo belluino, viscerale ed indignato che duetta con la chitarra di Tracy G, artefice di un sound spinoso, dall'andamento a tratti sgraziato e claudicante, che quasi penetra nelle ossa. Questo disco esalta anche la batteria di Vinny Appice, una macchina da guerra dall'armamento pesante e il basso di Jeff Pilson, meno appariscente ed in prima linea rispetto agli altri strumenti, che si insinua con discrezione, in maniera quasi subdola in tutte le canzoni dell'album.

Con grande sorpresa si scopre che i pezzi più "radiofonici" sono quelli più veloci, le varie "Firehead", "Hollywood Black", "One Foot In The Grave" e "Here's To You", appena un filo meno dissonanti e distorti del resto dell'album, e spesso ammantati di un leggero velo di humor nero; "Jesus, Mary And The Holy Ghost" è un'opener tormentata, tutta accelerazioni e ripartenze, in cui fa capolino anche il ringhio di un cane rabbioso, "Evilution" spicca per la cadenza ossessiva imposta dal basso sulfureo e gorgogliante di Pilson, su cui la chitarra di Tracy G stride e si contorce su sé stessa, "Pain" impressiona per come il dolce ed onirico interprete di "Rainbow Eyes" possa cantare con tanta amara ferocia, "Give Her The Gun" è una ballad mancata cruda sia musicalmente che liricamente, "Strange Higways", la titletrack, è quasi alienante per la sua illusoria partenza lenta e per il suo ritmo cadenzato e desolante, scandito da un basso stavolta ben scandito e ipnotico, su cui RJD dà voce allo smarrimento ed alla delusione di un uomo che si trova a confrontarsi con un mondo ferito e allo sbando, a cui si sente estraneo.

Pur non essendo ancora un'opera perfetta (i Dio faranno ancora meglio con il successivo "Angry Machines", più radicale e sintetico, con "This Is Your Life", la canzone a mio avviso più emozionante di tutta la storia della band come chiusura) "Strange Highways" merita una considerazione altissima, per come Ronnie James Dio è stato capace di seguire il suo istinto di artista gettando il cuore oltre l'ostacolo, fronteggiando un prevedibilissimo flop commerciale e l'ostilità di gran parte dei fans e rinunciando all'appeal e ai ricavi più sicuri che avrebbe potuto offrirgli il nome Black Sabbath; oltre a "Man On The Silver Mountain", "Stargazer", "Heaven And Hell", "Holy Diver" e "I Could Have Been A Dreamer" è anche così che mi piace ricordare Ronnie.

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