Burt Bacharach e Rod Stewart, Fonzie e Richie Cunningham, Dionne Warwick e Gladys Knight, Stevie Wonder ed Elton John: questa canzone li coinvolge tutti, in modi per alcuni simili e per altri diversi. Pronti?

Via!: Burt Bacharach, il compianto grande compositore americano, nel 1982 lavora insieme a suoi collaboratori a una porzione della colonna sonora del primo film importante diretto da Ron Howard, il personaggio di Richie Cunningham nella commedia televisiva “Happy Days”. La pellicola si intitola “Night Shift -Turno di Notte” e vede fra i protagonisti proprio il suo idolo Fonzie nella finzione di “Happy Days”, ossia l’attore Henry Winkler. I due a quel tempo erano peraltro ancora coinvolti nel celeberrimo serial televisivo, che chiuderà giusto un paio d’anni dopo.

Una delle canzoni composte all’uopo da Bacharach, l’oggetto di questa recensione, viene affidata alla voce di Rod Stewart, che se la canta da par suo. Il brano è importante nell’economia del film perché ne costituisce la chiusura, con relativi titoli di coda mentre sta ancora suonando. La corrispondente scena del film è molto suggestiva, con l’incredibile skyline notturna di New York ripresa da un elicottero… Se si vuole anche lugubre, colla cinepresa che indugia a lungo sulle enormi Torri Gemelle, simbolo allora dell’opulenza commerciale statunitense, oggi della crudele morte di tanti innocenti e monito di ciò che possono portare le politiche estere arroganti ed espansioniste di una grande nazione.

La versione di Stewart del brano resta un po’ lì, senza eccessivo successo, rimanendo anche esclusa dalle scalette dei suoi album solisti dell’epoca. Capita però, qualche tempo dopo, che la grande cantante soul Dionne Warwick faccia finalmente pace col maestro Bacharach, le musiche del quale l’avevano vista interprete favorita negli anni settanta. Si erano allontanati per un qualche diverbio, ma nel 1985 si riprendono cogliendo l’occasione per rinverdire i fasti di quest'ennesima ode all’amicizia, rimasta sin lì a livello di musica da film, con un testo niente di eccezionale ma con una musica di alta classe.

Il pretesto per tale riesumazione è costituito da una delle tante iniziative di raccolta fondi per la ricerca sull’AIDS, la peste del secolo scorso. La Warwick o chi per lei organizzano un quartetto vocale niente male, costituito dalla collega di colore ex-Gladys Knight & the Pips e dalle superstar planetarie Elton John e Stevie Wonder. Alla faccia.

La canzone, com’è tipico di Bacharach, gode di una ricchezza armonica e di una progressione di accordi raffinata e squisita, con profluvio di quarte non risolte, settime minori e maggiori, uscite dalla tonalità e repentini ritorni. Cose un po’ jazz insomma, patrimonio di quella libertà e creatività nell’armonizzare il rhythm&blues molto americana, e molto elegante.

I quattro interpreti ci danno dentro con trasporto, galvanizzati dalla vicinanza fisica e dalla reciproca stima. L’armonica cromatica di Wonder s’incarica di introdurre il brano, poi inizia la padrona di casa Dionne riservandosi tutta la prima strofa e relativo ritornello. Dopodiché una terza strofa la attacca, emozionando all’istante, il fuoriclasse non vedente del Michigan, per metà dando fiato all’armonica e poi continuando con la sua augusta voce. Di bene in meglio.

Esibitesi le ugole angeliche, arrivano quelle di temperamento: la strofa viene conclusa dall’Elton non ancora quarantenne di quei tempi e, impressionante dirlo, in mezzo a quei soul singers patentati fa la figura dell’ultimo della classe, malgrado la sua magnifica voce e attitudine, condite di sincero amore per il rhythm&blues stelle e striscie. Lo si sente quando Wonder si prende di nuovo la scena per il secondo ritornello… la sua emissione è inarrivabile come luminosità, sonorità, sobrio atteggiamento, perfezione.

Viene il momento della sanguigna Gladys Knight, dal timbro un tantino meno fantastico (si fa per dire…) rispetto a chi l’ha preceduta, ma tempra a pacchi. Ripete nuovamente il ritornello, per intero, spinge più degli altri ed è quantomeno epocale un suo animoso vibrato a 3’ 07”: acchiappa una settima di DO in “forever…” che vengono giù i santi, in colonna.

Insiste nuovamente l’inglese della compagnia per un acceso, ultimo ritornello ma, quando la melodia si inerpica e si fa tosta per un uomo, ritorna la Warwick a chiudergli la frase, spalleggiata da Wonder che poi organizza con lei il quieto finale fatto di mugolii e soffi di cromatica.

Bella roba, questa dei quattro quarantenni di allora (si va dai 35 di Stevie ai 44 di Dionne, passando per i 38 di Elton ed i 41 di Gladys). Col tempo la canzone è assurta a classico “adulto”, come tante altre di Bacharach; persino osteggiata da alcuni, tipo lo scrittore di gialli Manzini che la spaccia come tormentone natalizio in un suo romanzo.

Il rhythm&blues non è esattamente il mio genere preferito e le tiritere buoniste mi fanno venire l’orticaria. Ma la musica se ne frega dei generi, dei contesti, delle premesse, degli scopi più o meno furbi e dei messaggi e quando è buona, ottima musica, si fa strada nel cervello e si trova un bel posticino per restarvi, a vita. E’ il caso, per me, di questo disco di quarant’anni fa.

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