Come ben tutti sanno, i Libertines si sono sciolti tempo fa, e dalle loro ceneri sono nati due gruppi, facciamo tre se consideriamo anche gli Yeti di John Hassal, ma il nucleo creativo dei Libertines era costituito dalla coppia Barat-Doherty, e, una volta separati, Doherty ha dato vita ai Babyshambles, mentre Barat, seguito dall’altro libertino, il batterista Gary Powell, ha formato i Dirty Pretty Things con Didz Hammond e Anthony Rossomando. Per quanto riguarda ciò che arriva in Italia, di Pete Doherty ne sentiamo parlare di tanto in tanto, e mai per quel che riguarda la musica; di Carl Barat ne sentiamo parlare davvero poco, anzi per niente.

I Dirty Pretty Things sono arrivati quest’anno alla loro seconda uscita discografica, a luglio è infatti apparso nei negozi “Romance at Short Notice”, il seguito del godibile esordio “Waterloo to Anywhere” (2006).

“Romance at Short Notice”, almeno secondo il mio parere, può essere paragonato al suo predecessore: un disco godibile, che ti intrattiene per circa 40 minuti, ed in certi punti davvero trascinante; insomma, non stiamo parlando di un capolavoro, ma si fa ascoltare e ti lascia un lieve senso di soddisfazione unito ad una voglia di rimetterlo a girare nel lettore cd… quella sensazione che non ti fa pentire di averlo comprato.

Per quanto riguarda la musica, l’impronta Libertines c’è tutta, ma se “Waterloo to Anywhere” era proprio legato a quel suono, questo album al primo ascolto lo definirei più lento del precedente, dai toni un po’ più rallentati, ma anche più coesi, un’idea viene ascoltando le prime canzoni del disco “Buzzards and Crows”, “Hippy’s Son” e il singolo che fa da traino all’album “Tired of England” (titolo ingannevole, perché suona come una dichiarazione di affetto verso la propria patria). Ci sono i momenti rilassanti con la serenata “Come Closer” e le belle ballate “Fault lines” e “The North”. Non mancano i momenti più “veloci” con quelle melodie trascinanti (un po’ già sentite) disegnate da chitarre più o meno sporche (come “Kicks or Consumption”, “Best Face”) , e pezzi come “Where the Truth Begins” e “Chinese Dogs” regalano un certo sapore estivo (estate già finita, ma che iniziava quando è uscito il disco).

Il tutto è condito dalla voce di Barat (anche se non sempre è lui a cantare): un tono quasi distaccato, però caldo e coinvolgente, a volte sporco e roco (come in “Hippy’s Son”), a volte semplicemente tranquillo.

Alla fine si rimane soddisfatti, è un buon disco ed anche i testi sono ben curati ed interessanti. Ciò che mi turba, e quest’album non fuga i miei dubbi neanche un po’, è se Barat e soci stanno intraprendendo un certo percorso che, dopo due album carini, si spera sfoci nell’album bello (chi lo sa, il terzo o il quarto, hanno tutte le carte per farlo, a meno che nel frattempo i Libertines non si riformino)… o se le carte buone sono già state giocate, appunto, coi Libertines.

E’ lecito sperare, il tempo ce lo dirà, intanto non possiamo far altro che ascoltare.

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