Dixie Dregs è un quintetto di virtuosi strumentisti dediti al genere fusion in una maniera tutta loro, caratterizzata dal fatto che il leader e quasi esclusivo compositore della formazione, il chitarrista Steve Morse, ama svariare di molto la sua ispirazione operando con uguale competenza e destrezza quantomeno in quattro o cinque generi musicali diversi: rock, country, funky, jazz, classica. I pregi e i difetti focalizzabili ascoltando le loro intricate evoluzioni sonore sono quelli che ci si può aspettare dalla musica strumentale virtuosistica: encomiabile, spumeggiante abilità e coesione da una parte; indubbio, tedioso senso di freddezza e didascalicità dall’altra.


La band aveva esordito negli anni settanta pubblicando una fila di dischi e disperdendosi poi a metà degli ottanta. Da lì in avanti vi sono state più che altro delle rimpatriate per dei giri di concerti, tranne un ultimo disco di musica inedita risalente all’ormai lontano 1994. Quest’opera dal vivo è, nello specifico, la testimonianza di una di quelle tournée di ricomposizione: siamo ad inizio anni novanta, Morse fino a poco tempo prima aveva militato nei Kansas realizzando con loro un paio di lavori (uno molto AOR e l’altro molto progressivo, tanto per non smentire la sua ecletticità), mentre di lì a pochi anni sarebbe entrato in pianta stabile nei Deep Purple; in quel periodo trovava pure la maniera di far uscire diversi album in proprio (o meglio a nome Steve Morse Band, in trio con bassista e batterista) sempre di genere strumentale e fusion.

Il biondo, tonico, sempre sorridente e disponibile Steve Morse è uno strumentista niente meno che prodigioso ma non ha, a farla breve, il dono del genio musicale. Oltre ad una perizia tecnica strabiliante ed un fraseggio personale e ben riconoscibile alla chitarra solista, possiede sì capacità compositive ma non il talento di strutturarle sotto l’aspetto concettuale in maniera epocale, di creare insomma con facilità canzoni che restano, melodie e passaggi strumentali di efficacia e accessibilità universali. E’ in altre parole un maestro che trasmette solo bravura, o quasi (beh, ci sono anche simpatia, modestia, sapienza e amore per la musica… l’uomo è in gamba e col cuore al posto giusto). Ascoltarlo è un piacere, ma le sue performances possono procurare autentico entusiasmo solo a chi suona a sua volta la chitarra o almeno qualche altro strumento, ed è nel contempo molto interessato a scoprire i limiti estremi, tecnici ed espressivi, di esecuzione.

In qualche modo Steve si è sempre reso conto di ciò assoggettandosi di buon grado, anzi con gioia, al coinvolgimento con realtà molto più “calde” musicalmente come appunto i Kansas e i Deep Purple, proprio per venire a capo dell’asfitticità e pragmatismo della sua musica quando è solo lui a tenere il bandolo della matassa. La cosa ha funzionato meglio coi Kansas, un po’ meno coi Purple a ragione che il confronto diretto con Ritchie Blackmore (lui sì musicista geniale e punto in materia di chitarrismo rock) lo vede inevitabilmente fuori gara.

Non per niente la pagina che giudico più riuscita e trascinante di questi cinquanta ed oltre minuti di esibizione dei Dixie Dregs è forse l’esecuzione di “Take It Off The Top” (dal terzo album in studio “What If” risalente al 1978) imbottita com’è da un vero frullato misto di accenni a celeberrimi temi rock, in ordine di apparizione “My Sharona” degli Knack, “Gimme Some Lovin’” dello Spencer Davis Group, “Mississippi Queen” dei Mountain, “Summertime Blues“ resa celebre dagli Who e infine “Freebird” dei Lynyrd Skynyrd. Meno efficace invece la riproposizione strumentale della monumentale “Kashmir” degli Zeppelin, restando inavvicinabile l’originale con Robert Plant al canto e John Bonham a bombardare.

Ancora da “What If”, che credo sia il mio album preferito dei Dixie Dregs, viene ripresa alla grande la stupenda mini suite “Odissey”, di cui ammiro sommamente il mitico arpeggione centrale del prode Morse, disteso come un tappeto rosso ad accompagnare un panoramico, conturbante solo di violino di Allen Sloan, il tutto preceduto e seguito da vorticosissimi inseguimenti strumentali un po’ alla Gentle Giant, su tempo dispari prima in tredici ottavi e poi quindici. Nell’originale in studio tale meraviglioso saggio era eseguito su di una dodici corde, qui Morse lo rende sulla chitarra elettrica, con un suono e un settaggio degli effetti semplicemente sublime.

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