Premessa:

Io sono nato in provincia. In un posto qualsiasi di quest’Italia, ma di provincia, nettamente.

Con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso: meglio per certi versi (distanze brevi, amicizie facili ed estese, salutare vita all’aperto, cibo genuino, famiglie più unite, psicosi meno complesse…) e peggio per altri (grettezza e ristrettezza mentale, stato e istituzioni meno presenti, opportunità culturali e lavorative limitate e via dicendo).

Allora, a vent’anni, me ne sono andato. A continuare a studiare, e ad aprirmi un po’ la mente, in una grande città. Dove poi ho inteso di rimanere dopo che, ormai ventiseienne e laureato ma ancora senza lavoro e senza una lira, mio padre aveva sentenziato: “Qui a casa nostra letto, pranzo e cena per te ci sono sempre. Se però intendi continuare a vivere fuori casa, allora ti arrangi da solo”.

Ok, ciao ciao… scelsi senz’altro di starmene definitivamente lontano dalla mia pessima famiglia, e di arrangiarmi da solo (ehm, aiutato nei primi tempi dalla morosa, che già lavorava).

Per trent’anni ho vissuto, lavorato, messo su famiglia con quella morosa lì, comprato casa, generato un figlio, affrontato una dolorosa separazione, passato anni e anni da single tutto in quella grande città. E se all’inizio non avrei tollerato di vivere in qualunque altro posto, piano piano con la fine della giovinezza e il deteriorarsi della qualità di vita quel senso di esclusività, di riconoscenza e di ammirazione verso quella città si sono fortemente affievoliti.

Così, quando ho conosciuto e poi mi sono innamorato di una delle mie parti, ho preso l’occasione al volo senza il minimo tentennamento e sono ritornato alla base, all’ambiente più chiuso e soffocante ma più familiare e “facile” della provincia. Perché a cinquant’anni è diverso che a venti… ormai mi ero salvato da tempo dai malefici dell’ambiente provinciale, la mente si era “aperta” irreversibilmente, di esperienze di vita movimentate ne avevo fatte, si potevano tirare un po’ i remi in barca e sopportare meglio la mancanza di diversità, gli stimoli limitati, quella sensazione di stare in una periferia d’impero, poco considerata ed assistita e ricca.

Contesto:

Questo mio percorso esistenziale sopra accennato non è certo particolarmente peculiare…Direi piuttosto che è comune, con le dovute e differenti sfumature, a tantissime altre persone. Fra cui anche Donald Hugh Henley da Linden, estremo lembo orientale del Texas al confine con l’Arkansas, ossia nel mezzo del vuoto pneumatico del centro degli USA, una piana sconfinata nella quale non cambia nulla per migliaia di chilometri, non succede niente, non si inventa e non si decide alcunché e tutti quelli che hanno la ventura di nascerci possono o restare a vivere lì, da ignoranti e gretti come non ce n’è in altra parte del mondo, oppure appena grandicelli scappar via a gambe levate verso qualche angolo meno opprimente e più stimolante di quel grande Paese.

Don Henley scappò da Linden ad inizio anni settanta per andare, come tanti, a cercar fortuna a Los Angeles nell’ambiente musicale. Dopo un po’ di gavetta ebbe la buona sorte di solidarizzare col tizio ideale per lui, ossia un musicista sfacciato e intraprendente, coraggioso e progettuale, a perfetto complemento del suo carattere invece dubbioso ed introverso, anche se concentrato e preciso e ambizioso. Glenn Frey gli risolse molti suoi problemi e lacune e gli permise una carriera… e lui a sua volta la concesse all’altro, mettendo a disposizione il suo maggiore talento di cantante, di melodista e di paroliere.

Il sodalizio (“sposalizio”) ha dato vita ad uno dei gruppi di maggior successo di ogni tempo. Sono stati anni di gloria e di prepotenza, di dissolutezza e di vizio, di nevrotico assoggettamento alle regole ferree delle rockstar californiane: villoni, macchine, feste, donne, alcool, cocaina, megalomanie, invidie, bassezze.

Finita la giostra degli Eagles, Henley rimase in loco a tentare di prolungare la festa da solo (“single”), pubblicando ogni tanto dei bei dischi da solista che l’hanno tenuto bene a galla, nel frattempo concedendosi altri anni di jet set, di antipatica e spocchiosa corsa sulla corsia di sorpasso, col solito matrimonio coll’attrice di turno finito presto, guai con la legge per via delle droghe eccetera… tutto regolare.

Poi, alle prese con gli anni novanta ormai da ultra quarantenne, ha cominciato a stufarsi di quel mondo, ed anche lottare per delle cose serie e a soffrire per problemi seri: prese a incanalare un bel po’ dei suoi molti soldi in imprese e fondazioni benefiche, ecologiche; si mise a lottare a sangue contro la sua casa discografica, vincendo la causa e proseguendo a fondare un’associazione di musicisti a salvaguardia delle abituali losche del business; si risposò e stavolta con la persona giusta, un ex-modella malata di sclerosi multipla che gli ha dato tre figli.

Infine se n’è andato da Los Angeles e tornato in Texas, dove l’orizzonte è più basso ma il cielo più alto. E il primo disco solista (il quinto e per ora ultimo, datato 2015) che non suona più californiano bensì delle sue parti (grosso modo) è questo. Fatto a Nashville e a Dallas, con una caterva di strumentisti quasi tutti abituali di quei posti (ne ho contati quarantatré, dalle note di copertina!) e cantanti (diciannove!).

Punti di forza:

Take a Picture of This” non è certo speciale ma quanto meno non è infestata da alcun ospite country e perciò sposta istantaneamente il mood in zona Eagles (quasi… mancano la ricchezza, accuratezza ed intelligenza dei cori, valore aggiunto indispensabile per i miei gusti).

Praying for Rain” è vagamente Dylaniana, molto ben cantata da Don e poi gli immancabili ospiti country (ben tre: di nuovo Alison Kraus e Trisha Earwood, più Ashley Moore) vengono tenuti sullo sfondo, alle armonie vocali nei ritornelli.

Train in the Distance” ha la giusta tensione. Finalmente la tensione del rock con molteplici piani sonori, non solo quello del dobro e del mandolino (deliziosi, nell’occasione). Compare alle armonie vocali l’ennesima country singer, Lucinda Williams.

Anche la penultima in scaletta “Younger Man” è molto lirica, ricorda qualche altro brano intimista dei vecchi album di Henley. Gran voce, e gran testo: lui dice a lei che è meglio che si cerchi un uomo più giovane, non lui. Malinconica e romantica, emozionante.

La conclusiva “Were I Am Now” è la più rock, la più urlata, la meno Nashvillesca del lotto. Siamo pienamente nell’ambito “Eagles che ci tengono a essere considerati rocchettari” che ha pervaso tutta la carriera del gruppo.

Il resto:

Sono quasi tutte ballate, e sono sedici! Meno male che le cose migliori sono verso la fine, sennò personalmente farei fatica a non interrompere l’ascolto prima del termine.

L’iniziale “Bramble Rose” è un soporifero valzer smandolinato e steel guitarato, in duo con la cantante country Miranda Lambert, però la seconda strofa la canta certo Jagger (noto ammiratore e saccheggiatore del country americano insieme al suo socio Richard), che col suo timbro potente e beffardo sposta immediatamente, seppur momentaneamente, la ballata verso un ambito Rolling Stones.

La seguente “The Cost of Living” è un anonimo lento e stavolta una strofa è fatta cantare dall’anziano Merle Haggard, countryman passato a miglior vita quattro anni fa.

L’ospite nel moderato e scontatissimo rock’n’roll, che se non altro spezza la sequenza di ballate, “No Thank You” è Vince Gill dei Pure Praire League.

In “Too Far Gone” tocca ad altri due di casa a Nashville cioè Alison Krauss e Jamey Johnson, ma è di nuovo un valzerotto pieno di steel guitar e con un giro armonico strasentito.

In “When I Stop Dreamin’” viene a scassare i cabasisi la celebre, formosa ed esplosiva Dolly Parton, la quale col suo timbro super country sfacciato e sonorissimo si mangia in un boccone quel che resta della voce di Don.

Basta così e avanza. Ce ne sarebbero un’altra mezza dozzina, anch’esse lente, ben cantate, professionalmente suonate da una caterva di musicisti perfetti e misurati, tutte più che prevedibili e noiosamente country.

Giudizio finale:

Un album tributo, ricolmo di cliché e di ospitate di professionisti di quel country che, più rimane nella sua forma “pura”, meno mi va a genio.

Nulla di personale, potrei dire la stessa cosa del blues, o del jazz. E’ strano? Non sopporto il country ma adoro gli Eagles, i Poco, Loggins & Messina… e allo stesso modo mi annoia, con rispetto parlando, il blues dei pionieri Johnson e Muddy Waters e compagnia ma stravedo per Led Zeppelin, Gary Moore, Joe Bonamassa e via dicendo. Stessa cosa per il jazz… da solo mi “rimbalza”… usato per smuovere e imbellettare le cose rock e pop (Steely Dan!... ad esempio) mi fa impazzire. Contaminazione, ecco il segreto.

Perciò questo disco è in grandissima parte fuori della mia giurisdizione. Se non fosse per il suo titolare Don Henley, uno dei miei principali idoli musicali, non lo possiederei. Spero che il vecchio Don torni a farsi aiutare a musicare i suoi pezzi da gente meno ghettizzata nell’universo texano e Nashvilliano del country. Lui può, la sua voce è invecchiata ma ancora versatile e può stare appieno nel rock.

Ma forse è tardi, la vecchiaia incombe e toccherà sopportare altri dischi così scostati dal mio gusto, e dai miei ottimi ricordi e sempiterna gratitudine per il precedente Henley.

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