Ritirati in un vecchio fienile riconvertito a sala registrazione fra scrittura, prove e grigliate. Così è nato il quattordicesimo lavoro della band più amata e odiata del mondo. Può sembrare strano ma questo “Distance over Time” (prima pubblicazione sotto l’etichetta prog per eccellenza Inside Out) sta sorprendentemente mettendo d’accordo anche quei fan un po’ più puristi ed esigenti dei Dream Theater pronti sempre ad attaccare la band quando non realizza un album secondo le loro corde. Vediamo di capire perché.

Diciamolo senza scrupoli, “The Astonishing” non è stato capito! Personalmente penso che le parole “capire” ed “apprezzare” vadano decisamente a braccetto, se non capisci non apprezzi. Quello che non è stato capito di “The Astonishing” è probabilmente proprio quella voglia di fare qualcosa di profondamente diverso e pretenzioso, di andare oltre l’oltre; e nell’arte e specie nel prog bisogna anche saper esagerare e andare oltre, molti però non lo capiscono.

I Dream Theater in fondo si sono sempre sentiti liberi di fare ciò che vogliono però hanno sempre avuto quella sorta di obiettivo di rimanere parzialmente fedeli a quelle caratteristiche (come disse Portnoy ai tempi negli extra del “Live at Budokan”), sarà stato forse questo eccessivo distaccarsi dalle loro abitudini compositive a spingerli a riscoprire la loro anima progressive metal. Effettivamente gli ultimi due album erano piuttosto lontani dal genere che loro stessi hanno creato nella forma definitiva e nell’accezione più classica che conosciamo tutti (Fates Warning & co. erano soltanto anticipatori); l’omonimo disco del 2013 era essenzialmente un disco hard progressive che strizzava l’occhio ai Rush in diversi frangenti, “The Astonishing” era ancora più soft, un’opera di rock sinfonico e orchestrale. Alla luce di ciò quasi si leggeva nel pensiero della band la voglia di riscoprire le proprie origini e di qualcosa di decisamente più duro.

Non aspettiamoci però un ritorno al sound delle origini come la band auspicava, non è certo un’aria di inizio anni ’90 quella che si respira nell’album. Il sound invece è duro e tagliente, sì, sottolineo la parola “tagliente”, mi sembra proprio quella più adatta. La band lo aveva annunciato e sono parole che a molti fan della frangia più progressive fanno sicuramente paura, la paura è sempre quella di un nuovo “Train of Thought” troppo thrash-oriented ma anche di un album troppo tamarro come “Systematic Chaos” o troppo forzatamente dark metal alla “Black Clouds and Silver Linings”, insomma di un album troppo Portnoyiano. Niente di tutto questo è “Distance over Time”, i Dream Theater qui propongono un sound sì molto metallico ma senza voler giocare a fare i metallari, accusa spesso rivolta agli ultimi Dream Theater del periodo Portnoy. Anche il più affilato dei riff qui sembra semplicemente ben inserito in un contesto molto equilibrato che dosa e bilancia molto bene aggressività, melodia e virtuosismo.

E se non è un nuovo “Images and Words” allora cos’è “Distance over Time”? Beh, personalmente mi sembra grossomodo un incrocio fra un “Black Clouds and Silver Linings” (sì, un po’ di Black Clouds a dire il vero c’è) e “A Dramatic Turn of Events”. Il paragone con il primo viene spontaneo perché si avverte la tendenza a voler confezionare un prodotto tendenzialmente molto duro ma che mantenga l’impronta progressive ma anche perché si preferiscono i botta e risposta di assoli fra Petrucci e Rudess e gli unisono fra i due alle vere e proprie parti strumentali; sì, qui Jordan Rudess effettivamente non concede molto spazio ai suoi famosi “giochetti”, probabilmente hanno un po’ stancato tutti e qualcuno gliel’ha fatto notare, o semplicemente hanno spontaneamente stancato un po’ anche lui; anzi, qui nel tentativo di rinnovarsi quel tanto che basta eccolo che propone con massiccia frequenza inserti di organo non proprio all’ordine del giorno, oltre che ad un frequente ricorso a parti di piano; in alcuni video tratti dalle registrazioni si intravede un piccolo organo (sembrerebbe essere una riproduzione del vecchio Hammond) nel suo equipaggiamento, i suoi assoli in “Untethered Angel” e “Fall into the Light” sono strepitosi, in un certo senso una sorpresa; un Rudess leggermente vintage, leggermente più “classic rock” ma che non stona nel contesto prog-metal tagliente in cui si inserisce. Ma mentre in Black Clouds (che ho adorato comunque) dominava quella sensazione di eccessivo e di “forzato”, dove forzato era il tentativo di suonare molto cattivi e forzate erano le gare di assoli, qui invece tutto sembra più spontaneo e naturale, anche il più lungo ed intenso degli assoli sembra avere molta più naturalezza, creatività e scorrevolezza; ed ecco che il paragone con Dramatic diviene necessario anche per via della maggior ispirazione compositiva; con il disco del 2011 “Distance over Time” ha inoltre in comune la forte componente melodica, le possenti aperture che un grande fan dei Dream Theater vorrebbe sempre sentire.

Eppure nonostante una matrice prog-metal abbastanza tradizionale l’album ha una sua varietà che rende le tracce tutte più o meno diverse fra loro; alcune hanno una struttura più tradizionale e altre meno, alcune si focalizzano più su un elemento e altre su un altro, il vocabolo però rimane quello, il senso dell’equilibrio fra elementi si mantiene costante.

I due brani più articolati e strutturati sono abbastanza scontatamente (perché non sempre è così nel prog) i due più lunghi, “At Wit’s End” e “Pale Blue Dot”; due brani fatti per accontentare il progmetaller più tradizionalista, il primo è movimentato nella prima parte per dare poi più spazio alla melodia nella seconda, dove l’assolo lungo e melodico di John Petrucci vuole demolire per l’ennesima volta il luogo comune secondo il quale “Petrucci non ha anima” (ormai diventato un capro espiatorio per screditare i Dream Theater), il secondo presenta i migliori intrecci strumentali possibili, i più fantasiosi ed imprevedibili; sono i due brani in cui tutti gli elementi si equivalgono di più. Non è da meno nemmeno la opener “Untethered Angel”, che con il suo mood oscuro, i duelli di assoli e l’intro molto opethiana suona molto Black Clouds, ne sembra quasi un outtake, talmente outtake che all’uscita del singolo un po’ tutti abbiamo parlato di “brano insipido”, che non fa impazzire ed è solo un singolo; inserita nel contesto invece risulta tranquillamente azzeccata, sembra piazzata lì appositamente per fornire un biglietto da visita dell’album, già lì si avverte la sensazione di equilibrio, dinamismo e compattezza.

Più focalizzata invece sul virtuosismo strumentale “S2N”, un brano frenetico dove salgono in cattedra Myung e Mangini, massacrando letteralmente i propri strumenti creano un vortice incredibile che trascina l’ascoltatore, una sorta di Rush più metallici e taglienti, probabilmente il brano sorpresa dell’album.

“Fall into the Light” è invece il brano più metal-oriented del lotto, quello dove l’elemento metal viene messo in primo piano, dominano i riff martellati e il ritmo serrato, una scopiazzatura dei Metallica, l’ennesima della loro carriera ma probabilmente quella più riuscita e gradevole, probabilmente perché anche qui si avverte un senso di equilibrio e naturalezza; non è una “Constant Motion” che cade nella tamarraggine né una “As I Am” che fa sembrare i Dream Theater una band thrash metal a tutti gli effetti, qui i Dream Theater fanno i metallari ma senza far dimenticare chi sono, anzi, riuscendo a confezionare comunque un brano pienamente prog-metal ad alto contenuto melodico; non solo vi sono solari aperture nel ritornello, non solo vi sono staffilate d’organo ad alleggerire e a smorzare i riffoni di chitarra, non solo vi è una sezione con intrecci chitarra-tastiera tipici del loro stile, vi è soprattutto una lunga parte centrale lenta, con arpeggi più puliti e limpidi che mai, roba che non si sentiva dall’intro di “A Change of Seasons”, nonché un altro notevole assolo melodico e carico di feeling di Petrucci. Anche qui siamo un po’ tutti rimasti sorpresi!

Tuttavia a fare da controparte vi è anche il brano che si focalizza sulla melodia sacrificando l’aggressività, “Barstool Warrior” è un riuscitissimo brano di prog-rock melodico, che sembra abbia conquistato prepotentemente i cuori dei fan. A dire il vero non si tratta di un qualcosa di “strano” o “insolito”, i Dream Theater hanno quasi sempre inserito nei loro dischi almeno un brano meno duro degli altri (o con meno inserti metal) e meglio etichettabile come prog-rock, pensiamo a “Surrounded”, “Learning to Live”, “Innocence Faded”, “Voices”, “Finally Free”, “Breaking All llusions”; i Dream Theater hanno anche un’anima prog-rock e funziona piuttosto bene, l’hanno anche dimostrato realizzando album più soft come “Falling into Infinity”, “Octavarium” o i due precedenti a questo. Per la verità “Barstool Warrior” comincia in maniera movimentata, quasi come se volesse ingannare l’ascoltatore preparandolo ad un brano ricco di virtuosismi effimeri quando invece il piano che si cela dietro è tutt’altro, è più o meno quello che succedeva in “The Bottom Line” degli Spock’s Beard, che esordiva con un insolito hard rock per poi trasformarsi in un’emozionante ballad dai connotati acustici, la mia mente è andata subito lì; ma quando dopo il primo minuto prende il sopravvento la melodia non ce n’è per nessuno, abbiamo il Petrucci più strappalacrime ed emozionale, i suoi fraseggi melodici e comunque in generale l’impalcatura melodica del brano (ben sorretta anche dal piano di Rudess) raggiunge livelli davvero eccelsi, ancora una volta bisogna arrendersi alla verità che i Dream Theater hanno anima eccome; ed è un brano melodico nella loro miglior tradizione e che mantiene anche qui un certo equilibrio e un buon dinamismo strumentale; nello scorso decennio qualcuno poteva lamentarsi dell’eccessivo allungamento ed eccessiva prolissità in cui cadevano alcuni tentativi di realizzare un brano “soft”, come in “Repentance”, “The Ministry of Lost Souls” o “The Best of Times”, non credo si possa dire altrettanto di “Barstool Warrior”.

Eppure nonostante non ci sia più un certo Portnoy il vizietto del brano tamarroide e orientato verso il metal più commerciale ogni tanto scappa, ecco qui spuntare “Room 137”, un brano palesemente tamarro, da pogo ai concerti o da incontro di boxe; non sarà il brano più ispirato, si prefigge di essere fondamentalmente diretto e forse si disperde un po’, ma qualcosa a diversificarlo c’è anche qui, si pensi all’accompagnamento quasi jazz di Rudess sotto l’assolo di chitarra, quasi a dare un tocco di eleganza ad un brano invece decisamente rozzo, così come i passaggi di synth classicamente prog nella seconda strofa o quella breve parte di organo hard rock che la precede; fare i tamarri è riuscito meglio di altre volte, lo hanno fatto senza davvero cadere nel pacchiano. Il brano più palesemente commerciale è però “Paralyzed”, più rigorosamente impostato su una certa forma canzone, ma stavolta dobbiamo parlare di un brano piuttosto deludente, ha una melodia piuttosto spenta, fredda, sembra davvero un brano composto in un momento di stanchezza, ha l’intensità di un b-side qualunque; strutturalmente simile a “Forsaken” e “You Not Me” non raggiunge né la potenza e la brillantezza melodica della prima né l’innocenza pop-rock della seconda (brani entrambi ingiustamente bistrattati), di carino ha comunque quell’energico riff nu-metal/alternative guidato da chitarra e basso martellante che ricorda molto i KoЯn.

Piuttosto deludente anche l’unica ballad dell’album, “Out of Reach”; solitamente ne possiamo trovare anche due o tre per album ma dopo l’eccessiva presenza di ballad sinfoniche nel precedente album era quasi ovvio che qui si limitassero ad una sola; ma questa non riesce ad essere intensa e a colpire come hanno fatto in passato, poi la voce troppo femminea di LaBrie risulta qui quasi fastidiosa; alla fine non skippo nulla, dei Dream Theater non si butta via niente, in fondo non sono mica due brani trap o reggaeton, però questi ultimi due brani citati si potevano tranquillamente evitare.

Ora una panoramica sulla prestazione dei singoli. Nulla da aggiungere sul divino John Petrucci, abbiamo già detto di Jordan Rudess, a salire in cattedra sono tuttavia John Myung e Mike Mangini, gli stessi che erano saliti in cattedra due album prima, nell’omonimo disco del 2013, ed erano finiti invece un tantino in ombra nel mastodontico concept del 2016; del primo siamo sempre stati sicuri delle sue abilità tecniche, meno sull’incisività, quante volte la pagina di Facebook musical-satirica “Giovanni All’Heavy” (che spesso fa satira sui bassisti e sul loro venir considerati musicisti di serie B) lo ha preso simpaticamente di mira dicendo che quando suona “non si sente un cazzo”… beh non credo possa dire altrettanto sulla sua incisività in “Distance over Time”, forse il suo lavoro al basso migliore di sempre, all’incirca come nell’album omonimo ma lì sembrava un po’ troppo nei panni di Geddy Lee mentre qui è tutto Myung; Mangini si conferma un mostro di tecnica e di imprevedibilità nello sferrare i colpi, esattamente come nel 2013, qui però è anche supportato da una produzione che lo mette in risalto, senza quel suono troppo ottuso che aveva in precedenza; si leggono opinioni sempre contrastanti fra i sostenitori di Mangini e i nostalgici di Portnoy, chi si fa promotore della mostruosità tecnica del primo e chi del maggior sentimento del secondo, chi accusa il primo di essere una macchina senz’anima e chi invece il secondo di avere dei limiti tecnici, a periodi alterni prevalgono gli elogi al primo e i rimpianti del secondo; forse saranno vere entrambe le affermazioni però mi chiedo se Portnoy sarebbe riuscito a fare quello che si sente in “S2N”… Delude invece James LaBrie, dopo la prestazione varia e convincente offerta in “The Astonishing” qui invece non incide mai, sembra un tantino spento, si limita al compitino, peraltro le recenti prestazioni dal vivo testimoniano anche diverse difficoltà di esecuzione; un vocalist sul viale del tramonto?

Giungendo alla conclusione dico… gran disco progressive metal, grande equilibrio fra i vari elementi, a metà fra classicismo e modernità, con qualche intuizione di rilievo ma senza una grande voglia di osare più di tanto (anche se vabbe’, se cerchiamo la voglia di osare meglio buttarsi sugli Haken), anch’io alla fine applaudo all’incredibile senso di quadratura che il disco presenta, ma ho preferito la totale atipicità di “The Astonishing”, avevano preso una strada che poteva indicare una nuova via, ora invece ecco il ritorno sui propri passi, che accontenta un po’ tutti, ma mi chiedo se c’era davvero bisogno dell’ennesima dimostrazione prog-metal classica, come se non sapessimo già che loro lo sanno fare al meglio…

Alla fine il motivo del riscatto critico dei Dream Theater risiede proprio qui, nel fatto che è un disco molto alla Dream Theater; seguo i commenti su di loro da circa 13 anni e quello che ho notato è esattamente questo: quando tentano nuove strade ricevono diverse frecciatine, poi tornano a ricevere elogi quando ritornano sul loro sound più canonico, cosa che era già successa con “A Dramatic Turn of Events”. Un’altra arma vincente potrebbe essere stata anche la sua durata insolitamente più contenuta, quante volte abbiamo letto commenti che accusavano i Dream Theater di allungare eccessivamente ed inutilmente i propri album, qui invece riescono ad essere più essenziali e a concentrare tutto in un minutaggio più contenuto, solo tre brani superano i 7 minuti, nessuno raggiunge i 10, durata complessiva 56 minuti circa, il secondo disco più breve della loro discografia dopo il debut “When Dream and Day Unite”, non arriva nemmeno ai 57 di “Images and Words”, si toccano i 60 solo aggiungendo la bonus track “Viper King”, un brano di hard rock metallico fatto di chitarre ruggenti e un potente organo, piuttosto insolito per i Dream Theater e che io avrei messo tranquillamente al posto di “Paralyzed”, magari relegando a bonus quest’ultima. Ma sono tutte considerazioni, interessanti da fare ma rimangono lì nel bar degli amanti di musica e di certo non entrano nel disco, che comunque ci regala una bella oretta di musica di alto livello come loro sanno offrire.

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