Il ritorno di Mike Portnoy nei Dream Theater ci ha colti un po’ di sorpresa, ma in tanti dicevano che prima o poi sarebbe avvenuto. Ricordo ancora quando fu annunciato il suo abbandono in quel settembre 2010, ricordo le opinioni contrastanti circa l’impatto che questo avrebbe avuto sulla band, fra chi affermava che i Dream Theater non sarebbero stati più gli stessi e chi invece sosteneva che la band sarebbe stata più libera di comporre e di ripristinare il proprio status di “alfieri del prog-metal”. In questa fase transitoria Portnoy è stato spesso additato come il principale responsabile dell’allontanamento dei Dream Theater dalle proprie attitudini nel nuovo millennio, colui che ha favorito la svolta verso territori troppo metal, troppo tamarri, troppo commerciali o troppo alternative. Ma nei circa dodici anni con Mike Mangini è spesso subentrato il rimpianto, Mangini è stato riconosciuto come un mostro di tecnica e bravura, oggettivamente superiore al suo predecessore, ma giudicato nettamente più freddo e meno emozionale di Portnoy.
Di acqua sotto i ponti in questi tredici anni di lontananza ne è passata parecchia, Portnoy ha suonato in svariati progetti che hanno accresciuto parecchio il suo bagaglio. In ogni caso negli ultimi anni gli indizi che facevano presagire ad un quasi scontato ritorno all’ovile erano diversi. Prima il ricongiungimento con John Petrucci che lo vuole come batterista per il suo lavoro solista “Terminal Velocity”, poi anche con Jordan Rudess per il terzo attesissimo lavoro dei Liquid Tension Experiment… fino a quel 4 marzo 2022, quando Portnoy fa la grande sorpresa ai suoi vecchi compagni e va a vederli di persona in concerto a New York, fotografandosi poi assieme ai componenti (compreso il suo sostituto Mangini). Chissà in quanti, vedendo quelle immagini, avranno pensato “ok, è fatta”. E poi la notizia della grande riconciliazione nell’ottobre 2023.
Il Portnoy che rientra a casa è un Portnoy più maturo e meno presuntuoso, che non vuole più comportarsi da boss e pronto invece a collaborare alla pari dei suoi compagni senza prevaricare. Tuttavia non ho dimenticato le sue tentazioni metallare e tamarre, tant’è che alla notizia del suo ritorno il mio commento fu <<dai, che fra un po’ esce un nuovo disco dei Metallica>>, a cui uno rispose <<è più probabile che ne esca uno dei Muse>>; beh, direi che stavolta ci ho azzeccato io. Non so quanto il ritorno di Portnoy abbia inciso sulla direzione intrapresa, ma “Parasomnia” (una sorta di concept album argomentativo basato sui disturbi riguardanti il sonno) è un disco decisamente heavy, un album dove la pesantezza viene messa severamente in primo piano. Fin dai primi ascolti non ho potuto fare a meno di notare il percorso che i brani seguono: per diversi minuti tengono un ritmo vivo ma non esagerato, in ogni caso diretto e costante, mentre la chitarra di Petrucci fa da padrona con riff rocciosi e sostenuti, solo superata la metà viene dato spazio anche ad aperture melodiche e a sezioni strumentali a dire il vero non troppo fantasiose (non è certo la fantasia strumentale la principale attrattiva dell’album). Sono strutture che così concepite parlano chiaro, ci dicono esattamente “sì, la nostra intenzione è quella di essere per prima cosa diretti, ruvidi e aggressivi, questo è il mood imperante nel disco, tutto il resto viene dopo, è a coronamento”; è un disco per prima cosa metal, poi viene il progressive, in una forma piuttosto diluita.
Complessivamente non si tratta di una novità in casa Dream Theater, il combo di Boston già altre volte ha alzato il tiro, favorendo sonorità più estreme e perfino oscurando la componente più melodica; lo ha fatto in tracce sparse qua e là ma anche in interi (o quasi) album. L’esempio più lampante è quello di “Train of Thought”, dove il metal veniva pompato e prevaleva su ogni cosa; sonorità estreme le aveva anche “Black Clouds and Silver Linings”, un esempio ben riuscito di dark prog-metal; poi c’era “Distance Over Time”, che aveva chitarre taglienti inserite però in un contesto prog-metal equilibrato che bilanciava bene tutti gli elementi. A chi si avvicina di più “Parasomnia”? Secondo il mio modesto parere, a livello di pesantezza direi che questo sta qualche gradino sotto questi citati, mentre a livello di approccio generale indicherei come parente più stretto “Train of Thought”. Con il disco del 2003 ha in comune la predominanza dell’elemento metal, ma non è un nuovo “Train of Thought”, non raggiunge gli stessi livelli di pesantezza, è prevalentemente heavy ma in maniera decisamente più morigerata, e mentre lì la melodia veniva quasi soffocata qui non succede. E poi non si scade mai nella tamarraggine in cui in quel periodo spesso la band incappava, tutto rimane assai composto. In tanti probabilmente odiavano gli inserti vocali eccessivamente rozzi che Portnoy di tanto in tanto infilava di prepotenza, e un po’ di paura che tornando a casa li riportasse in auge effettivamente c’era, ma potete stare tranquilli, non è successo. Onestamente credo che nessuno dei brani qui presenti calzerebbe a pennello in “Train of Thought”, nemmeno quello più dichiaratamente pesante, “Midnight Messiah”, inserito in tale contesto risulterebbe un momento quasi “rilassato” se confrontato con il resto, non si sposerebbe più di tanto con il suo mood gagliardo.
L’album in ogni caso non suona mai uguale a se stesso, pur avendo un orientamento ben chiaro quella pesantezza si presenta in una veste sempre diversa. Nella strumentale introduttiva “In the Arms of Morpheus” si affacciano gli Haken delle loro parti più dure, grazie anche alla chitarra a 8 corde di Petrucci (secondo utilizzo della 8 corde dopo l’esperimento primo in “Awaken the Master”, sarebbe stato un peccato se fosse rimasto un caso isolato). “Night Terror” ha un attacco complessivamente molto classic metal, quasi maideniano ma travolgente quanto basta. “A Broken Man” offre una buona varietà di soluzioni, a volte perfino insolite, con Petrucci che ricama bene le trame con la sua chitarra; un brano che alterna ritmiche cadenzate riconducibili a una sorta di Opeth molto più slavati e soluzioni di chitarra e basso molto cupe e sofferte che ricordano persino i Tool, fino alle incursioni quasi jazzate della parte strumentale. “Dead Asleep” è a mio avviso l’episodio più riuscito, riesce ad essere tagliente senza essere davvero tamarro, e riesce ad esserlo per quasi tutti i suoi 11 minuti senza risultare tedioso, nonostante non presenti un notevole dinamismo strumentale e ritmico, in più sono riusciti a ritagliare sufficiente spazio per aperture melodiche potenti e per inserti orchestrali senza spezzarne l’aggressività e il senso di angoscia. “Midnight Messiah” invece va fiera in territori Metallica, quelli né troppo thrash né troppo ammorbiditi, taglienti quanto basta, è il brano più potente e diretto e quello indubbiamente più lontano dal prog.
La parte finale dell’album è tuttavia un po’ diversa e un po’ più classicamente Dream Theater, quasi come se volesse in qualche modo rimangiarsi quanto detto fino a quel momento. Il breve interludio “Are We Dreaming?” sembra proprio voler fare da ponte per questo finale un po’ diverso. “Bend the Clock” è proprio il brano che fa da contrasto a tutto il resto, un brano melodico in un album dominato dalla pesantezza; è totalmente imparagonabile a quello che accadde in “Train of Thought”, non ha la stessa funzione di “Vacant”, quello era un intermezzo sofferto che era in realtà perfettamente in linea con l’atmosfera cupa dell’album; questa invece offre oltre 7 minuti di piena apertura melodica brillante. Anche se devo dire che non si tratta proprio della più riuscita delle ballad (se tale si può considerare), poco importa se dai commenti che leggevo in giro molti la esaltavano come la migliore del disco; non ha una melodia così struggente, sembra costruita in maniera un po’ forzosa e innaturale, quella chitarra graffiante sembra posticcia e fuori luogo, ne rovina l’effetto finale che magari poteva essere migliore. Sembra che le ballad non siano il piatto forte degli ultimi Dream Theater, “Out of Reach” era quasi fastidiosa, nel penultimo album si erano resi conto che non era strettamente necessario piazzarla a tutti i costi, dimostrando grande onestà intellettuale, qui invece hanno dato prova che se ne poteva tranquillamente fare a meno.
La suite finale “The Shadow Man Incident” è anch’essa qualcosa che devia dal resto dell’album, è la composizione che più si riavvicina allo stile Dream Theater, qua il metal non è più il centro di tutto ma torna ad essere una componente regolarmente e sapientemente distribuita, si torna al prog-metal più autentico, si torna ad equilibrare aggressività, melodia e fantasia strumentale; chi ha difficoltà ad apprezzare questo album può trovare conforto in questa suite, mentre per chi ama la sorpresa è chiaramente il brano che sorprende di meno (fatta eccezione per qualche melodia vagamente latineggiante nella sezione strumentale). Onestamente però mi era piaciuta di più la suite che chiudeva il precedente album, la trovavo più cinematografica e coraggiosa sotto un po’ tutti i punti di vista.
Tirando le somme… A me quest’album in parte ha colpito, ha sorpreso. Pensavo se ne uscissero con un altro album prog-metal prevedibilissimo e invece si sono in qualche modo rimessi in discussione, prendendo un elemento del loro sound e sviluppandolo a dovere, con disinvoltura e senza diventare ripetitivi. Credo che di tutte le volte che i Dream Theater hanno provato a comportarsi da metallari questa sia la volta che lo hanno fatto meglio, lo hanno fatto senza eccessi, con misure ben prese e sviluppando bene ogni dettaglio. Poi per carità, non si avverte nessuno spirito di rivoluzione o di stravolgimento, ma per me è promosso.
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