"Language bearers, Photographers, Diary makers.
You with your memory are dead, frozen.
Lost in a present that never stops passing.
Here lives the incarnation of matter.
A language forever."


Parole che rappresentano il contrasto tra la vita e la morte, l'inizio e la fine, il tutto e il niente, la fiducia e la rassegnazione.

Parole feroci e tristi, quelle che aprono il sipario di uno spettacolo tra i più strani ed interessanti del cinema Weird, rilasciato nel 1991 dal regista Edmund Elias Merhige, ma concepito già da due anni. Uno spettacolo che prende il nome di "Begotten".

Le sensazioni che si provano sono già chiare sin da quella tanto discussa scena iniziale. Quella casa isolata nel mezzo di un'oscura campagna dove un uomo mascherato in preda ad attacchi di pazzia (in seguito identificato come "Dio") si suicida con un coltello, dando vita, dopo una lunga agonia, ad una bellissima Madre Natura, anch'essa mascherata, la quale si feconderà con il seme di "Dio", portando alla luce uno strano ragazzo denominato "Figlio Della Terra" (il "generato" del titolo), che, tra attacchi epilettici e il tentativo di mantenimento alla madre attraverso una corda usata sotto forma di cordone ombelicale, non avrà un buon futuro quando incontrerà, dall'alto di una montagna, un gruppo di strani esseri incappucciati.

Già a primo acchito non è facile spiegare il concetto base del film. Semplicemente perché non c'è un concetto base vero e proprio alla base di "Begotten".

Lo stesso Merhige diceva che il film può essere inquadrato in più significati, attraverso proprie interpretazioni, legate magari ad esperienze soggettive (e non a caso da una di queste, avvenutagli veramente, sarebbe nata l'idea per la pellicola in questione).
E il suicidio di Dio lo si può spiegare in diversi modi, lo si può vedere come l'incarnazione di quelle speranze in un mondo migliore che, dentro una specie di buco nero, soccombono di fronte all'ipocrisia e alla falsità di certa gente, la fine della pace e l'inizio di un'autentica sofferenza infernale, la frustrazione esistenziale.
La conseguente nascita del Figlio Della Terra, e il successivo rapporto con gli indefinibili simil-indigeni in costume, potrebbe essere il simbolo della difficile, se non propriamente impossibile, accettazione di quel poco che rimane della natura in sè nel mondo, e forse anche della vita, per arrivare alla sua conseguente deturpazione, senza pietà. Anche se forse un briciolo di speranza è rimasta, alla fin fine.

Prevale una perenne angoscia, generata da una parte dall'efficace ripetizione di suoni e voci di uccelli per mano del compositore Evan Albam, e dall'altra da uno strano bianco e nero che, sopprimendo i colori, riconduce, nella sua forma, ai primi due decenni del cinema del Novecento. Il risultato è un lento cammino in una dimensione allucinata, non facilmente identificabile, che merita di essere fatto, specialmente da chi è attratto da un certo tipo di cinema.

Qualcuno vedeva (o vede tuttora) in "Begotten" qualcosa di blasfemo. Così non è. Questo è un film che fa pensare, in ogni campo. Umano, ecologico, religioso (con tanto di collegamenti ai miti cristiani ed egiziani), forse anche politico, e magari capace di far riflettere chi è credente (come il sottoscritto) sulla condizione del mondo. E ciò rende il lavoro di Edmund Elias Merhige molto attuale, nella sua interezza. Un lavoro di chiave Espressionista, che deve molto a "L'Urlo" di Munch per certi versi (come del resto "Tetsuo" di Tsukamoto, anche se in un'altra tematica) ed anche a "Eraserhead" di David Lynch. Qualcosa di scorrevole per alcuni, pesante per altri, impossibile da sopportare per altri ancora. Insomma, non per tutti.


"Like a flame burning away in the darkness
Life is flesh on bone convulsing above the ground"


Sarebbe meglio fare in modo che la propria vita non sia così.

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