Il miglior prodotto progressive rock degli anni novanta, l’unico della band americana in questione con una reperibilità decente ancor oggi, nasce per una più unica che rara iniziativa controtendenza del colosso Sony che in piena, plumbea era “Seattle”, concede una chance a questi aulici professori dell’arte musicale per sé stessa e senza tiramenti commerciali, gente che arrangiandosi da sola era sin lì già arrivata più o meno al terzo album.

E non solo Sony li ingaggia… addirittura non interferisce minimamente con i contenuti musicali del lavoro: i cinque musicisti d’alto bordo allora si scatenano e ne viene fuori un’opera della durata complessiva di quasi settanta minuti. Si tratta di sedici canzoni di una complessità e difficoltà esecutiva, specialmente canora, micidiale; pur tuttavia fluide ed armoniose, del tutto accattivanti per un orecchio aperto e predisposto anche un minimo.

Malgrado la sua scorrevolezza esecutiva questa musica così elegante, ricca, cangiante è del tutto impotente verso le orecchie elementari del popolo bue, ovvero la stragrande maggioranza di quelli che spendono denaro per la musica accontentandosi del battage pubblicitario, del look, dell’organizzazione mediatica, del pret-a-porter.

Infatti il disco, pubblicato nel 1994 figurarsi, non entra in classifica e a nulla valgono le mandibole bloccate e gli occhi spalancati dei palati fini, le recensioni ammirate ed entusiaste, la nascita di un culto pieno di rispetto. Così come era venuta, la Sony se ne andrà dopo quest’episodio e gli Echolyn delusi si scioglieranno, per poi fortunatamente ritornare insieme un lustro dopo, con orizzonti più che mai limitati ma nuovi dischi e concerti sempre magnifici.

Non è il caso di stare a fare la punta qui e là a questi sedici brani. Vanno gustati uno dietro l’altro (alcuni sono uniti fra di loro), con la massima attenzione e disponibilità fisica e mentale possibile perché ne succedono di tutti i colori… Cinque o sei ascolti sono il minimo necessario per cominciare a godere del tutto, senza perdersi ancora tante cose.

L’aspetto che in ogni caso salta più all’orecchio è la quantità indecifrabile, sontuosa di voci a canone. Due voci, tre voci, quattro voci a canone… i mitici Gentle Giant gli farebbero una pippa a questi: cori, inseguimenti e botta e risposta vocali di una precisione e un’inventiva avvolgenti; questo insieme a concatenazioni sorprendenti di atmosfere, aperture melodiche, dialoghi e scambi serrati basso/batteria/tastiere/chitarre di una profusione che Frank Zappa avrebbe sollevato il sopracciglio e inumidito il baffo se fosse stato ancora in giro, vivo e vegeto, a sentirli.

Non c’è equità a questo mondo, siamo una razzaccia. Questi cinque signori andrebbero protetti da una legge, come i panda. Invece campano insegnando musica ai ragazzini. Fakkuyu.

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