Tale è stata la mia disperazione di fronte a questo oscuramento mediatico, una sorta di coma indotto, di de-baser, che sono stato portato a recensire ugualmente. Come se l’abitudinarietà potesse sopperire alla mancanza. Ora giudicate voi se questo mio parlare a degli pseudo de-baseriani immaginari, all’interno della mia testa, possa essere letto come atto d’amore estremo o come primo passo verso la schizofrenia.
Ma lasciamo la psicoanalisi di un recensore e torniamo alla musica; mi trovo di fronte infatti, ad un disco che è già prenotato per uno posto tra i migliori 10 del 2004: il recentissimo (Maggio 2004) “Walking With The Beggar Boys” degli Elf Power. Si ricorderà Antonio Sapio, alias Nick, che al tempo di “Yankee Foxtrot Hotel” avemmo una discussione sul genere alt. Country, folk, indie, alternative Americano e saltò fuori il nome degli Elf Power. Mi consigliò “Dream in Sound” (allora per me ignoto, ma oggi già ordinato dopo l’iniziazione di “Walking With The Beggar Boys”) e io gli parlai delle recensioni entusiastiche che avevo letto circa il disco che sto recensendo. Non finì lì, incuriosito anche dal fatto che Michel Stipe li annoverava fra i suoi prediletti, lo comprai e oggi è un tutt'uno con il mio stereo.
Il disco è breve, non più di 35 minuti, ma del tutto riuscito, un mix perfetto di melodia elettroacustica ed esplosività power-pop. È l’ideale per la bella stagione, folk a pieni giri sapientemente impreziosito da lampi elettro-psichedelici. I testi altrettanto riusciti, sono il retrogusto agrodolce di un album solare colonna sonora ideale di momenti gioiosi e solari.
Un po’ Grandaddy e un po’ Pavement, un po’ Beach Boys e un po’ New Pornographers, gli Elf Power alla settima prova non tradiscono i loro sostenitori.
Il disco si apre con la veloce e graffiante “Never Belive”, dove non è difficile notare la differenza con i già citati New Pornographers. Si continua sugli stessi alti livelli con “Walking With The Beggar Boys” chitarre distorte ed elettronica ad accompagnare testo ossessivo-psichedelico, botta e risposta fra la voce di Andrew Rieger ed un improbabile coretto, con testi del tutto non-sense; il miglior Beckett impallidirebbe. Vero e proprio valore aggiunto risulta essere la commovente “The Stranger”. Due minuti di ballata acustica addolcita dal violoncello, in cui emergono tutta la grazia e l’eleganza del Rieger songwriter. Potrebbe già bastare, ma il problema è che non c’è un pezzo sotto le 4 stelline.
Imperdibile per gli amanti del genere ma anche un ottimo disco d’iniziazione al Indie Americano!
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