Per il ruolo femminile Elio Petri scelse Florinda Bolkan perché “la sua figura sofisticata e al tempo stesso animalesca, […] naturalissima” si contrapponeva alla perfezione al personaggio interpretato da Gian Maria Volontè “tutto studio e calcolo”. Lei, borghese oziosa e bellissima; lui, ispettore capo della squadra omicidi. La relazione è torbida, sbanda tra i desideri sadomasochisti di lei e il bambino frignante ch’è in lui, si alimenta di fantasie come della documentazione fotografica medico legale: “…giovane studentessa rivoluzionaria viene soffocata dall’ordinario della facolta di sociologia con dei biglietti da diecimila e violentata dopo il decesso…” enuncia lui mentre la fotografa a gambe larghe. “Ma non vi eccitate quando le trovate cosi?” chiede lei, divertita.

Augusta Terzi, ovvero l’altra; l’altra persona, l’altra vita. Il “dottore” le taglia la gola al culmine dell’ennesimo gioco erotico, lo stesso giorno in cui viene promosso all’ufficio politico. Quel vicino di casa capellone e sovversivo era scivolato forse più d’una volta sotto le coperte di Augusta; ora che la carica glielo permette, il “dottore” può dedicarsi nervi ed emotività alla “repressione” unica cura. Il suo delirio professionale straborda oltre i limiti frustrati della meschinità e identifica nei giovani contestatori l’antagonismo di cui necessita come rappresentante della legge, nel capellone condomino di Augusta l’avversario-doppio di cui ha umanamente bisogno. Ma il “dottore” va oltre; la dicotomia che lo caratterizza nelle forme pubbliche e private (non è un caso che Augusta “è” Terzi) esplode nel conflitto principe che guida il film, quello tra il poliziotto e l’omicida. L’animo offeso e incerto dell’uomo spogliato si aggrappa alle vesti di chi rappresenta la Legge e l’Ordine, di chi perciò è “al di sopra di ogni sospetto”. Così dissemina la scena del delitto Terzi di prove inequivocabili della propria colpevolezza, alla ricerca della dimostrazione di intaccabilità della posizione che ricopre, alla ricerca dell’unica certezza: il Potere assoluto.

Elio Petri (“La classe operaia va in paradiso”, 1971) si cimenta in questa kafkiana divagazione sul potere e, superando le implicazioni politiche, segue l’andamento schizoide di un uomo-simbolo all’interno di una società figlia e schiava delle Posizioni e dei Principi, nella realtà e nell’immaginazione. Petri non ci svela il finale, a dimostrazione di come il suo messaggio prescinda dal caso particolare; fa scorrere la persiana verso il basso mentre noi, esterni all’abitazione del “dottore”, lo vediamo appena inchinarsi al questore giunto a interrogarlo dopo la sua autoaccusa. Ma il sogno che il protagonista fa prima della scena conclusiva sembra, assieme alla citazione di Kafka in chiusura (“qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”), stringere l’arrivo del questore nella morsa di un destino scritto; sdraiato sul letto, nel delirio, il “dottore” immagina i colleghi che lo torturano per fargli confessare la propria innocenza…

Il tono grottesco e il ritmo impeccabile si alimentano delle sfumature irresistibili della recitazione di Gian Maria Volontè (Nastro d’argento), con quelle parole così teatralmente istituzionalizzate (“Repressione è civiltà”) e quel retrogusto dialettico siculo immediato e povero.

Scritto da Ugo Pirro e dallo stesso Petri, Oscar come Miglio Film Straniero nel 1970, è una colonna portante del nostro cinema e probabilmente il più maturo e ricco dei cosiddetti “film politici”.

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