Era il 15 dicembre 1969 quando l'anarchico Giuseppe Pinelli cadde giù da una finestra del quarto piano della questura di Milano mentre era interrogato per la bomba esplosa tre giorni prima a Piazza Fontana. Il film di Elio Petri era già stato girato e c'era proprio l'episodio di un ordigno che scoppia davanti alla questura.

Inserito in questo contesto storico "Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto" è un film coraggioso oltre ad essere uno dei capolavori del cinema mondiale di cui possiamo essere orgogliosi (oscar miglior film straniero 1972).

Coraggioso perché Elio Petri, già giornalista dell'Unità, non si ferma per questo davanti alla sua denuncia del potere costituito, licenziando il primo film italiano che osa mettere in cattiva luce un alto funzionario della polizia, un rappresentante delle istituzioni fino a ieri ritenute intoccabili dalla censura nostrana. Il "dottore" (nel film non ha un nome) festeggia la sua nomina da capo della Omicidi a quello della sezione Politica uccidendo la sua amante borghese sadomasochista e lasciando appositamente a casa di lei indizi per verificare la propria inviolabilità di fronte alla legge. Perché "...qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano", recita la citazione kafkiana alla fine del film. Gian Maria Volontè disegna in modo straordinario  il ritratto di un funzionario assertore della supremazia della legge ("Repressione è civiltà!"), servile verso i superiori e prepotente con i deboli, infantile nel rapporto con la donna e virile in quello con i sottoposti,  nonché depositario di una mentalità fascista. Un caso patologico? Credo che nelle intenzioni del regista fosse il risultato delle anomalie di un tessuto culturale storicamente circoscritto.

Sono gli anni della contestazione, il paese si trova spiazzato e confuso davanti al vento del rinnovamento sociale e culturale. Gli stessi attivisti politici portati in questura per i controlli dopo l'esplosione della bomba si fronteggiano schernendosi tra anarchici e maoisti. Il "dottore" si considera al di sopra di questa umanità meschina perché è il Potere e il Potere salva sempre se stesso anche quando è evidente la sua colpevolezza.

Le sue certezze cominceranno a vacillare nel momento in cui commette l'errore di voler umiliare l'anarchico che era in intimità con la sua amante, l'unico testimone che potrebbe incastrarlo. Ma il giovane non lo denuncia irridendolo perché  niente è più marcio di un criminale a capo della polizia, ed è quello che interessa al regista:  la dolorosa coscienza di un problema che interessa tanto le dittature quanto le democrazie malate. Allora non resta che autodenunciarsi: il sogno finale del "dottore"  sdraiato sul letto in attesa dei superiori e dei colleghi che arriveranno con le auto blu chiarisce tutto o forse niente.

Grande Gian Maria Volontè nel suo delirio psicotico, bellissima e androgina Florinda Bolkan, stupendi camei come quello di Salvo Randone, stagnino di diretta derivazione da un precedente film di Petri (lo stesso padre del regista era un idraulico), nonchè di un personaggio come il giornalista Fulvio Rinaldi (allontanato nel 2003 dal quotidiano  Liberazione diretto da Sandro Curzi per un suo articolo su Cuba). Un film che è nel mito anche per le musiche di Ennio Morricone nonché per tutta la discussione che sfociò nel fantastico circa la somiglianza anche fisica del funzionario interpretato da Volontè con il commissario Calabresi, presente nella stanza da dove precipitò Pinelli.

Nonostante gli anni e la forte connotazione politica legata ad un certo periodo della nostra storia è un film che sarà attuale in eterno perché, come tutti quelli che scandagliano la reazione dell'uomo quando si trova ad essere la Legge, va oltre i generi e allora questo non è un più poliziesco come non è più un film sul Vietnam l' "Apocalypse Now" di Coppola (ricordate il colonnello Kurtz?)

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