“A uno scrittore di fantascienza non è consentito credere a quello che racconta, altrimenti pensate un po’ che confusione”.

Lo sosteneva lo scrittore cult Philip Kendred Dick, autore de "La svastica sul sole", "Un oscuro scrutare", "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?" (da cui il film-capolavoro di Ridley Scott, "Blade Runner") e molti altri titoli (quarantaquattro sono in totale romanzi e oltre un centinaio i racconti) che hanno fatto di lui una figura centrale del nostro tempo capace di dare voce a una realtà il cui senso viene percepito in costante erosione, spostamento e falsificazione.

Tutti noi viviamo dei deja vù, momenti di scollamento totale e astensione dalla realtà.
Dick sosteneva che quei momenti erano "la prova tangibile" che la nostra vita, in realtà, sarebbe programmata. Come se fosse criptata su un nastro che ogni tanto (quel momento di deja vù, appunto) si inceppa e ci lascia per qualche secondo in balìa del nulla.
Se ci pensate è il tema portante di "Matrix".

“Molti sostengono di ricordare una vita passata, ma io sostengo di ricordare un’altra, diversissima, vita presente”, disse durante un discorso pronunciato a Metz nel 1977, (vedi qui: www.youtube.com/watch?v=L_3P6hzfwhc ) lui che, come pochissimi altri, riuscì a tramutare le proprie ossessioni e le proprie nevrosi in un universo letterario assolutamente complesso ma a suo modo affascinante.

L’ossessione e la fobia persecutoria saranno parte integrante della vita di Philip Dick, come ossessiva fu la sua ricerca dei confini della coscienza e di quella realtà in costante sfaldamento. Era sospettoso e aveva un’innata diffidenza verso tutti e verso tutto (“dietro ogni faccia familiare può nascondersi un gelido mostro”, dirà), fino ad arrivare a far sorvegliare (o a sorvegliare lui stesso), le mogli, i propri vicini e gli amici. Negli ultimi anni poi continuò a vivere in totale paranoia, convinto che la sua vita - come quella di tutti - fosse al centro di un complotto governativo mondiale.
Come se tutti vivessimo in ambienti finti, ricostruiti ad hoc per chissà quali scopi (che poi, fu il tema di un altro suo romanzo che, se ci pensate bene, divenne poi il tema cardine del film "The Truman Show").

Molti dei problemi li causa la famiglia e i responsabili sono spesso i genitori. Nel suo caso lo dimostra la vita di questo genio incompreso della fantascienza, tra un padre assente, Edgar - funzionario federale presso il ministero dell’Agricoltura - che lo lasciò quando aveva cinque anni divorziando da sua madre, Dorothy, una donna che assomigliava alla Garbo, una femminista e una pacifista, grande amante della cultura e delle idee d’avanguardia, una lettrice bulimica che divideva il mondo “tra quelli che dedicano ad un’attività creativa e quelli che non lo fanno”.

"L’infanzia del piccolo Philip" – scrive il suo biografo-romanziere Carrère – “assomigliava a quella del Luzin di Nabokov o a quella di Glenn Gould, suo contemporaneo e per certi versi suo cugino spirituale: bambini grassocci e imbronciati, che hanno tutte le carte in regola per diventare campioni di scacchi o pianisti prodigio”. Aveva un gioco preferito: nascondersi tra gli scatoloni e restarci per ore in silenzio, perché lì si sentiva al riparo".
Questa tesi, non fa che accentuare il senso di straniamento e irrealtà che già ti aspetti da un libro del genere, da una storia del genere, da una vita del genere. Nell’analisi di Carrère, tutto ruota da una parte attorno alla smania di Dick di non essere considerato “solo” un big della fantascienza ma un vero genio mainstream, e dall’altra attorno alla sua forse patologica forse profetica incapacità di aderire completamente al tessuto del reale.

Probabilmente Carrère esagera qua e là nel descrivere minutamente percorsi psicologici ed umani che può solo immaginare o al massimo ragionevolmente dedurre, ma va detto che così facendo ci consente di intraprendere un viaggio affascinante e spaventoso al tempo stesso che altrimenti non avremmo nemmeno sognato.

Insomma.
Non so se si era capito ma da qualche giorno sto leggendo questa autobiografia scritta da Emmanuel Carrère: ‘Io sono vivo, voi siete morti' (Edizioni ADELPHI) che parla appunto di tutto questo.
350 pagine (ne ho lette una 50ina finora) messe insieme dopo un attento e lungo lavoro di tutto il materiale che l’autore ha lasciato alla sua morte (avvenuta nel 1982, a Santa Ana, in California), tra documenti, interviste e scritti di ogni genere, compresi i racconti delle sue esperienze trascendentali e visionarie, gli appunti e i diari inediti. Un libro-monumento questo di Carrère, con un solo grande protagonista – Philip Dick – una di quelle biografie scritta con quello stile tipico dell’autore francese che abbiamo imparato conoscere solo negli ultimi anni.
Questo libro era iniziato un po' in sordina, ma proseguendo nella lettura mi ritrovo ad appassionarmici sempre di più.

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