Ebbene si, è estate.

Ma, malgrado situazioni climatiche sfavorevoli tanto per il fisico quanto per l'encefalo e i suoi contenuti, i nostri infaticabili vertici istituzionali continuano, imperturbabili, a svolgere il loro dovere. Giustappunto, mentre (gran?) parte dei compatiorti lettori focalizza (in maniera fin troppo cerebrale) i propri interessi sulle possibili mete estive di Bobo Vieri con velina di turno al seguito, si scandalizza per la cellulite di Simona Ventura (si sa, è il male del secolo) o, magari, gioca, con la complicità di certa stampa, al toto-Isola Dei Famosi, il sottoscritto converge le attenzioni sul provvedimento/tormentone dell'estate: l'indulto.

Si prevede che, mediante tale misura, una promiscuità di individui pari a circa 11.000 unità lascerà le patrie galere prima della totale espiazione della pena. Lungi dal valutare annessi e connessi del caso, questo evento istituzionale mi offre la possibilità di parlarvi di quella che potrebbe essere la ''colonna sonora'' dell'indulto, l'inno dei carcerati di tutta Italia.
Un battito sincopato, degno della migliore musica dance anni '90, introduce ''Nun è overo niente'' (''Son tutte fandonie'' per chi poco mastica il dialetto partenopeo), drammatico racconto in forma colloquiale della visita di un fratello in carcere, magistralmente interpretato da due grandissimi della canzone neomelodica: Enzo Caradonna e Mauro Nardi.

Dopo essersi sincerati sulle reciproche condizioni di salute, si perviene immediatamente al dunque: il carcerato manifesta al fratello il proprio malessere, e l'intenzione di voler al più presto rivedere la luce, appellandosi alle sue cospicue possibilità economiche. Emblematico, pertanto, è il verso ''Io nun c'a faccio chiù, te prego famm'ascì, si ricco tu o può fà'' (''Non ne posso più, ti supplico, fà che le mie fatigate membra possano trovar ristoro al di là di codesto angusto perimetro, la tua disponibilità pecuniaria ti consente di adoperarti affinchè ciò che ti chiedo si realizzi''). Il delicato, nonchè attuale, tema della corruttibilità del sistema giudiziario, è affrontato con enfasi melodrammatica senza precedenti, la voce è rotta dal pianto, ci si attende una risposta fraterna rincuorante e, invece, il secco rifiuto proveniente dall'altra parte determina il crollo di tutti i luminosi propositi di libertà.

''Nun è overo, nun è overo niente'' - tuona il fratello con commossa autorità - ''Cu'e sord' nun s'accatta a libertà, nuje p'a legge simm tutt'eguali, e chi ha sbagliato aropp'adda pavà''. Questa frase è il fulcro concettuale della canzone. Alcune stranezze del sistema giudiziario ci hanno mestamente abituati ad un'utopistica concezione dell'uguaglianza di fronte alla legge. Ma l'autore Caradonna riabilita la giustizia come valore sempiterno, spogliandola di quell'alone che la rendeva, ai nostri occhi, quasi un bene mercificabile.
Certo, il carcere è duro per tutti, ma è giusto che chi è caduto in errore saldi il proprio debito con la giustizia, anche se, spesso, si ha la sensazione che il tempo non passi mai, che tutti si siano dimenticati di te e che, fuori, la vita non abbia più un senso (Commovente l'immagine del ''foglio di carta'', quale unica compagnia del detenuto). La storia termina con la giustizia che seguirà il suo regolare corso, e con il detenuto che non farà ritorno alla dimora prima del tempo stabilito dalla sentenza.

Spunto di riflessione e commozione, nonchè toccante lezione di vita sulla difesa dei valori e il loro lecito perseguimento.

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