E' ardua impresa scrivere di Ernst Jünger e di questo suo libro.

Primo perchè Jünger continua ad essere considerato, nonostante il suo decesso, un esponente del tradizionalismo e del pensiero conservatore.

Secondo perchè egli, purtroppo, aderì ad uno dei più mostruosi regimi novecenteschi: quello nazista.

Eppure Jünger, nonostante la sua giovanile ed entusiastica adesione al nazionalsocialismo, ben presto ne prese le distanze.

Jünger sognava, già ai tempi della Grande Guerra, la nascita di un "Uomo Nuovo". Un uomo capace di lasciarsi alle spalle la vile eredità della società borghese e "democratica", un uomo ben rappresentato dall'eroica e combattiva figura del cosiddetto "Operaio" (niente a che vedere con l'operaismo di sinistra), un uomo in grado di utilizzare la tecnica e la scienza per nobili fini, senza per questo diventarne schiavo o suddito.

Il nazismo, però, tradì queste sue idee e questi suoi propositi. Dopo anni di ambiziosa retorica, infatti, il regime hitleriano diventò una dittatura schifosamente borghese, putridamente burocratica, meschina, sanguinaria ed irrispettosa nei confronti della memoria di chi, armi in pugnò, andò a morire in trincea nel periodo del '15-'18. Un regime verso il quale Jünger, per quanto possibile, cercò di opporsi. Prima tramite la pubblicazione di libri enigmatici ma carichi di un forte significato politico (nei quali la figura di un non ben definito dittatore, comunque identificabile nel Fhürer, portava scompiglio) e infine tentando, assieme ad alcuni membri dell'elite militare tedesca, di eliminare "baffetto".

L'attentato non andò in porto ma Jünger, misteriosamente, riuscì a salvarsi dalla triste fine che toccò ai suoi sodali.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, Jünger continuò ad essere considerato come un nostalgico del regime hitleriano. Con il suo amico Martin Heidegger, con il quale condivideva molte analisi di carattere filosofico, Jünger venne letteralmente emarginato dalla vita intellettuale tedesca.

Proprio in questo periodo, nonostante il disinteresse montante, Jünger pubblicò una delle sue più importanti, rappresentative e attuali opere: "Il Trattato Del Ribelle".

All'interno di un mondo "pacificato", "democratico" e "libero" sorgevano, infatti, problemi insormontabili e annichilenti. Problemi addobbati con nuovi abiti ma da sempre vicini all'uomo moderno. La tecnica, un tempo esaltata dallo stesso Jünger, perdeva ogni finalità creatrice per diventare mero strumento nelle mani di un mondo imborghesito e animato da aride istanze utilitaristiche e calcolatrici.

Dall'uomo borghese, in breve, si era passati all'uomo "massa" che, sotto molti aspetti, incarnava i vizi e le viltà del suo predecessore.

Di fronte a questo quadro desolante, infatti, il soggetto si scopriva a) solo b) impotente c) oppresso. La libertà decantata dall'occidente euro-americano e l'eguaglianza professata dall'est comunista, nella realtà dei fatti, non avevano portato l'essere umano verso la sua piena, o parziale, realizzazione.

Il mondo post-bellico, in sostanza, si preoccupava solamente di istanze "materiali" (alle volte, come ben saprete, nemmeno di quelle! Pensiamo ai milioni di schiavi sfruttati negli Usa, nel terzo mondo o dalle nostre parti!) e continuava, anche se in maniera differente rispetto ai regimi totalitari, a tener soggiogate le masse. Come? Con l'ausilio della paura mediatica, tramite il controllo più subdolo e capillare, attraverso l'appiattimento delle differenze culturali e grazie a processi di atomizzazione e di spersonalizzazione operati nei confronti dei singoli. Un quadro che, sotto molti aspetti, ci riporta all'attuale situazione politica, economica e culturale: la globalizzazione.

La persona che, in questo quadro nichilistico, non vuole seguire il nefasto tragitto del novello Titanic (metafora spesso citata nel libro), si trova di fronte ad una scelta estremamente difficile: passare al bosco!

Passare al bosco, al di là di certa retorica romantica e idealista, significa farla finita con i dis-valori del mondo moderno ma, cosa più importante, significa scoprire il lato nascosto ed occultato della nostra natura. Significa, in sostanza, rivendicare una nuova libertà, una libertà che trova le sue fondamenta nel mito e nel superamento della morte.

Il mito, in questo caso, è una figura atemporale e metastorica. Figura che rappresenta un eterno scontro tra l'uomo e i Titani, forze opprimenti e desiderose di schiacciarlo. Uscendo dal tempo storicamente "definito", infatti, l'uomo può spezzare le catene e scoprire un contatto con una realtà molto profonda. Una realtà che molti potranno definire, storcendo il naso, come "spirituale". Misticismo a buon mercato? Probabile. In ogni caso è stimabile il tentativo, condivisibile o meno, operato dall'autore per superare la crisi esistenziale di chi era (ed è tutt'oggi) costretto a vivere in un deserto come quello sopra descritto.

Il superamento della morte, invece, non va inteso come macabra ricerca del "cupio dissolvi". Tale superamento va piuttosto interpretato come sincero dialogo intrapreso con la stessa. La morte, infatti, è parte ineluttabile del nostro destino e la società moderna continua, proprio per farci credere di vivere nel "migliore dei mondi possibili", ad insabbiare ogni riflessione riguardante questo cruciale evento. Divertirsi, ballare, lavorare, scopare, drogarsi e consumare... come se noi si fosse immortali o, comunque, immuni di fronte al deperimento del corpo fisico.

C'è anche un accenno all'arte e alla sua valenza creatrice. L'arte rende liberi e, forse, l'Artista è destinato a prendere nelle proprie il timone consegnatoli dal precedente archetipo dell'Operaio. Ma su questo punto molti dubbi si addensano nella mia mente. Mi vengono in mente, ma potrei sbagliarmi, le considerazioni dell'ultimo Heidegger riguardo la poesia.

Nel libro, purtroppo, Jünger non intraprende un'analisi economica e strettamente politica della società post-bellica e "globale". Primo perchè non è mai stata sua abitudine esprimersi, oltre un certo limite, su questi temi. Secondo, perchè egli ha inteso questo libello come "vademecum" destinato a chi, per incontrare la libertà costruttrice, intende intraprendere una via solitaria che lambisce territori "esistenziali" in luogo di quelli meramente socio-politici.

Al di là di questa non certo trascurabile "mancanza" (comunque comprensibile se considerato il taglio che l'autore ha voluto imprimere all'opera), ritengo "Il Trattato del Ribelle" un'opera estremamente attuale e in grado di porci svariati e attualissimi interrogativi. Le soluzioni? Quelle non ce le possono offrire i libri!

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