E' il secondo incontro fra Ernst Lubitsch e la diva Marlene, dopo quello "indiretto" (lui solo produttore) avvenuto lo stesso anno con "Desiderio" di Frank Borzage. La presenza della Dietrich è fondamentale e insostituibile: si muove nel film - e lo riempie di sé - come una sorta di divinità enigmatica, sottolineando con la propria imperscrutabile personalità la stessa struttura ellittica di un film altrettanto algido e misterioso.

Su soggetto di Melchior Lengyel (uno dei tanti commediografi ungheresi che fornivano materia prima alle commedie degli anni trenta) e sceneggiatura di Samson Raphaelson, "Angelo" è la vicenda di un triangolo amoroso-sessuale come poteva essere concepita nella Hollywood del Codice Hays. Soltanto in un contesto di repressione sessuofobica poteva infatti nascere e prosperare un cinema così profondamente segnata dalla reticenza: e soltanto un regista come Lubitsch poteva trasformare l'insinuante clima di censura non solo in un punto di forza, ma addirittura nel cardine assoluto delle proprie commedie.

I tre lati del triangolo sono il diplomatico inglese sir Frederick Barker, il giovanotto americano Anthony Halton, e ovviamente la bella e trascurata Lady Barker. Quello fra Anthony e la donna avrebbe dovuto essere l'incontro di una sera - si sono conosciuti a Parigi per un equivoco, lei non gli ha nemmeno detto il proprio nome, lui l'ha soprannominata Angelo - ma poi i due amanti si incontrano di nuovo, di fronte al marito di lei. Lady Barker dovrà prendere una decisione, e non avrà dubbi: sceglierà di stare al fianco del marito, che l'ha sempre amata e le ha immediatamente perdonato il tradimento.

"Lubitsch è una groviera dove ogni buco è geniale", ha sancito con brillante spirito di sintesi Truffaut, e "Angelo" ne è la puntuale dimostrazione. Dall'inizio alla fine, il film non dice e non mostra, omettendo volutamente retroscena, passaggi e situazioni chiave e lasciando all'immaginazione del pubblico il compito di colmare i vuoti. Non sappiamo nulla del passato misterioso di Lady Barker, di cui intuiamo qualcosa solo attraverso la conversazione iniziale con l'equivoca granduchessa russa. Non sappiamo nulla di cosa realmente avvenga la sera dell'incontro parigino, mentre la telecamera carrella lungo la facciata della "sala da tè" (in realtà un bordello di lusso) lasciandoci appena intravedere qualcosa attraverso le tendine scostate delle finestre.

La geometria dell'intreccio - il film è incorniciato da un prologo e un epilogo parigini - e delle dinamiche fra personaggi - ovviamente triangolari - convive con un uso sottile e insinuante del fuori campo. Ellissi, reticenze, velate allusioni costellano il dipanarsi di un film "impalpabile e astratto" (parole di Guido Fink), dove i dialoghi sono tanto lunghi e ricorrenti quanto colmi di sottintesi, e le reali intenzioni dei personaggi restano il più delle volte inespresse. A questa "geometria rigorosa e reticente" (sempre Fink) ben si adattano i toni morbidi e luminosi della bellissima fotografia di Charles Lang.

A proposito di ellissi non si può non menzionare la scena della cena a tre in casa Barker, rigorosamente tenuta fuori campo ma di cui veniamo a sapere tutto grazie ai commenti di cuochi e camerieri (la signora non ha toccato la bistecca, l'ospite l'ha tagliuzzata senza assaggiarla, il marito ignaro ha invece mangiato tutto): un compendio straordinario del mai troppo celebrato Lubitsch touch, una corrispondenza da manuale fra cibo e sesso, e soprattutto uno dei momenti più divertenti di un film dove le parti puramente comiche sono ridotte al minimo e affidate ai comprimari.

L'atmosfera generale, di una malinconia soffusa e impercettibile, fa di "Angelo" una delle opere più singolari di Lubitsch ma anche una delle più indimenticabili, come indimenticabile è il personaggio di Marlene Dietrich. Stiamo parlando di cinema e personaggi ovviamente d'altri tempi: ma il cui fascino, per chi lo sa cogliere, sopravvive immutato ancora oggi.

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