1997: piena ondata punk per l'Italia. Miriadi di gruppi hanno lasciato il loro pezzetto: alcuni piccolo altri grande; quello degli Erode è tra quelli grandi. È tra i più grandi, anzi, per tre motivi. Il primo è la musica: posto che di Oi! parliamo, abbiamo sul tavolo musica non scontata, atmosfere non scontate e soluzioni melodiche non necessariamente intuitive. E poi due motivi legati ai testi: da un lato i testi sono curati, mischiano vari temi e - se alcuni episodi sono più caciaroni - non mancano ricerche stilistiche notevoli. E poi: qua parliamo di politica, e non è una cosa da poco. Vuoi perché non erano proprio al centro della scena skin, vuoi per crescita personale dei componenti, per mille motivi, ma si consideri che - al contrario di quanto vuole lo stereotipo - il punk in quegli anni era un movimento massicciamente apolitico. Ovviamente c'erano gruppi schierati, ma il "vero spirito", citando gli Youngang, nella visione di una buona fetta dei punx non conteneva visioni politiche. Tutt'al più poteva esserci uno spirito anarchico di orgoglio operaio, ma la sfiducia nella classe dirigente era tale da tenere lontani dalla politica vari gruppi, pensiamo a gruppi come Rough, Klasse Kriminale o Nabat. Di questa retorica vediamo alcuni echi anche nella musica degli Erode stessi ("non è una questione di destra o di sinistra..." da "Europa") ma con tutt'altro tono e impostazione. Tra i grandi nomi, insomma, si considera generalmente che i primi a prendere posizione siano stati, insieme ai Banda Bassotti, proprio gli Erode. Qualche mese dopo si aggiungeranno i Colonna Infame Skinhead (per chi scrive probabilmente l'apice del punk italiano) e, con l'avvento degli anni duemila e una società che cambiava radicalmente, sarà rivoluzionato il concetto di musica politicizzata, underground e mainstream.
Ma ancora siamo a fine anni '90, e gli Erode sono quattro polentoni comunisti che suonano punk.
Una copertina severa, rossa. E parte "Banditi", brano manifesto, con intrecci melodici formidabili, orecchiabili come gli 883 ma punk come i Negazione. E da qua è un susseguirsi di centri: "Orgoglio proletario", un vero inno, "Sotto zero", con quel ritornello e quella ritmica da schizzare di testa, "Stalingrado", con la sua atmosfera malata, "Auf Wiedersehen", più introspettiva, "Frana la curva", diventata iconica e con un testo che - diciamola così - non esprime grande simpatia per le forze dell'ordine, fino alla magistrale title-track. Un disco vario, che passa dall'inno prettamente politico a momenti più vicini allo stile dei Frammenti, che ti catapultano direttamente nel magone del grigio cielo settenrionale. Ascoltare questo disco, in base alla canzone, vi condurrà a comprare un poster di Lenin da appendere in camera o ritrovarvi con un vago senso di inadeguatezza a guardare nel vuoto fuori dalla finestra, in preda ai ricordi.
Perché è un disco ben suonato, ben fatto, che trova i riff giusti, le giuste strofe, le giuste rime. Il difetto di questo disco? Forse è un poì lungo, con brani che - nonostante le differenze - sono comunque piuttosto affini l'uno all'altro per impostazione e stile.
Ma non ha grande importanza: parliamo di un disco che se è diventato così storico un motivo c'è. I musicisti, va bene, non avranno né le capacità tecniche né quelle compositive dei Pink Floyd, ma l'intuizione e l'ispirazione che stavano dietro a questo disco non erano da poco. Siete stanchi del solito Oi! grezzo e cialtrone ma le menate emo non vi attirano? Questo è il disco per voi. Voto: 88/100.
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