Siamo a Roma, a metà degli anni sessanta, in pieno boom economico. Il rampante editore Fausto Di Salvo (Alberto Sordi) si fa strada nel mondo degli affari capitolino a colpi di iniziative editoriali aggressive e spregiudicate, ma è stressato e frustrato: oberato dal lavoro, vive in una villa faraonica ma impersonale, ha una moglie poco più che decorativa, una cerchia di amici-parassiti, un figlio che non riconosce più.

Suo cognato Salvatore detto "Titino" (Nino Manfredi), partito per l'Africa tre anni prima, da più di un anno non dà più sue notizie, ed ecco che Di Salvo approfitta di una spedizione alla ricerca del cognato per evadere da quell'ambiente che ormai gli sta stretto: volerà in Africa in compagnia di un suo stretto collaboratore, un modesto contabile. I due si troveranno sbalzati dal tran-tran quotidiano alle selvagge e sconfinate distese del continente nero, in una girandola di avventure sulle tracce di Titino, che nel frattempo pare averne combinate di tutti i colori. Molti lo danno per morto, c'è chi parla di una sua conversione e dell'intenzione di fondare una missione, c'è addirittura chi si spaccia per lui, avendo ritrovato i suoi documenti chissà dove.

La sceneggiatura vanta delle trovate comiche che reggono bene il peso degli anni. Esilarante l'episodio in cui i nostri eroi sono scortati in una rocambolesca traversata della savana da un camionista italiano, tale Campi Benedetto che continua imperterrito ad intonare "Amoore scusami...", anche quando il mezzo viene preso di mira da un rinoceronte, ed incornato più e più volte sotto lo sguardo terrorizzato di Sordi; Il quale, al termine dell'avventura chiederà a Benedetto se la sua mamma è ancora in vita, prima di apostrofarlo "Brutto fijo de na..."

Sordi fa giustamente da mattatore, ma è fondamentale il ruolo di Bernard Blier, artefice di una interpretazione memorabile, ingiustamente trascurato nella locandina a favore del cameo finale di Manfredi (nome che sicuramente aveva maggiore attrattiva commerciale). Blier dà vita a un grigio e metodico ragioniere, eterno capro espiatorio del presenzialista e iperattivo Di Salvo, parafulmine di tutte le sue critiche, in un rapporto padrone-dipendente che è l'antesignano di quello che avrà Fantozzi con i suoi vari megadirettori. Con la differenza che Blier troverà il coraggio di opporsi al suo tiranno e dirgli il fatto suo, in un gustosissimo rovesciamento dei ruoli...

Certo, il film abbonda delle ingenuità tipiche del periodo, la più grave delle quali è quella di dipingere l'italiano sostanzialmente di buon cuore, rispettoso della natura e delle popolazioni indigene, vincente nel confronto con i portoghesi, dipinti come spietati negrieri... Magari fosse stato così! Ormai è assodato che nelle colonie italiane le cose andarono ben diversamente.

Esotismo patinato e un brivido di sensualità: ah, i seni nudi delle africane... Siamo nel 1968, non dimentichiamocelo... Ecco sviscerato il cliché della commedia all'italiana degli anni sessanta: il trionfo del piacionismo italiota, furbetto e un po' cialtrone, del quale Sordi è stato l'icona, che seduce spietati mercenari a suon di spaghetti aglio e olio - presenza immancabile nel bagaglio degli italiani all'estero! Che tenta sempre e comunque di "marcare il territorio" con le immancabili, esotiche bellezze locali. L'italiano se la cava in ogni caso, sembra suggerirci la pellicola: da un lato facendo il buffone e strappando un sorriso, dall'altro dimostrandosi più furbo dello straniero che ha di fronte: ma sarà poi vero?

E c'è il finale strappalacrime, certo, con Titino che decide di rimanere con la sua amata tribù, tuffandosi dal ponte della nave che lo avrebbe riportato a casa, e anche noi, da buoni italiani ci spremiamo una lacrimuccia, sull'onda dell'incantevole paesaggistica propugnataci da Scola e della splendida colonna sonora di Armando Trovajoli.

In fin dei conti, un film non fondamentale, ma neppure banale, leggero e garbato, che si lascia sempre vedere con grande piacere.

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