I solchi del percorso creativo spesso si diradano in varianti espressive; auree multicolori sulla scia d'un iride invisibile suggellano le corrispondenti varianti della vita.

In estremissima sintesi questo tipo di logica ha caratterizzato anche il percorso degli Europe, band scandinava che forse del tutto inconsapevolmente ha dovuto vendere al successo il prezzo dell'ascesa verso la propria maturità artistica.

Anzi forse più che di ascesa sarebbe più corretto parlare di conferma della propria creatività di base perché, ascoltando bene il loro ultimo "Bag of Bones", si ha l'impressione che l'embrione stilistico degli inizi si sia nostalgicamente raffinato sull'alba del presente.

Perché in fondo dopo l'ottimo "Wings for Tomorrow", disco di pure autoreferenzialità Heavy, le suggestioni planetarie di "The Final Countdown" e le sue due code emulative (Out of This World e Prisioners in Paradise) non hanno rappresentano altro che il mercimonio d'un talento AOR con venature Hard Rock in favore d'un pop rock, seppur di rara fattura artistica.

E così dopo l'inevitabile implosione agli albori dell'era grunge, 13 lunghi anni hanno mal celatamente ibernato le ultime giacenze tremolanti della band. Questo appunto fino al 2004 quando lo stridore roccioso di "Start from the dark", ridestando quel tacito ristagno, ha posto alla band il drappello del secondo tempo.

Il preludio di una decade, tra live e album in studio, ha così visto susseguirsi in totale 5 platter, di cui l'ultimo è appunto racchiuso in questo "mucchio d'ossa".

Qui la band al di là delle etichette sponsorizzanti, accentuando ancor più le soluzione appena accennate in "Last Look at eden", rifluisce nelle viscere della propria Alma mater attraverso rimandi iniziatici la cui ombra si proietta nei recessi dei Deep Purple, Badlands e Led Zeppelin.

Il disincanto volitivo erompe così nella distrofia carsica delle prime note del platter; la musica talvolta è mero richiamo estetico e al duo Norum/Tempest il sofisma realizzativo prorompe con manifesta accuratezza.

Come una coppia collaudata nella propria complicità esecutiva il chitarrista ed il Vocalist, conducendo un silenzioso conflitto artistico impongono al già accaduto la rilettura del proprio sodalizio.

In misura ragguardevole l'impatto esecutivo vede le retrovie di Norum, banditore carsico per poi ruggire furiosamente nel momento opportuno; come un coscritto dotato d'autorità padronale il braccio mentale degli Europe, scorrendo fluido all'interno di questo nono parto, conduce ad una costruttiva contrapposizione con la perseveranza della ruvidezza cristallia di Tempest: elaborazioni stilistiche di ruffiana caratura statunitense in un connubio con ruspanti melodie di chiara matrice europea.

Questo schema emerge apertamente nel trittico d'apertura; sferzanti riff chitarristici, imposto il loro trademark alle latenze d'un torrido blues già nel primo brano Ritches to rags, s'evolvono maturi in quello che è il vero e proprio alfiere dell'album nonché singolo iniziatico: Not supposed to sing the blues.

Di vago stampo ottantiano invece l'acuto di Firebox dove le medianità orientaleggianti gettano un tappeto sonoro cucito dalla ricercata sartoria by Mic Michaeli.

Ma è solo un preludio ad una dolce claustrofobia; impestato dalla propria confusione il quiescente narratore della copertina risorge dal proprio nichilismo espressivo e guida la mano d'un Norum ormai padrone del suo raro estro intimista. Artista quest'ultimo capace di percorrere in sordina pagine evocative di masse amorfe nonostante la consapevolezza d'una caratura limitata all'apprezzamento di pochi. In questo come del resto in pressoché tutti gli lp dipinti dalla sua mano è la vena creativa che lo contraddistingue a conferire espressività auree all'ugola di Tempest.

Questo tracciato di nostalgie espressive viene subito confermato dalla successiva Woman my friend; nell'incipit d'un cupo preambolo pianistico la canzone, sulle note di un tetro riff a dir poco trascinante, lambisce buie grandezze. Qui le venature settantiane, fondendosi e confondendosi in un criptico blues acido, riportano alla mente le prime rarefazioni dei Black Sabbath dove Norum dismessi i panni del Blackmore dei Rainbow indossa quelli di esalazione sulfurea di Anthony Iommi.

Camuffamento che però dura poco, poiché nella seguente Demon Head non solo per Norum ritornano le solarità del Blackmore dei Rainbow, ma al cantato di Tempest fanno capolino anche le ancor più solari espressività dei Whitesnake di David Coverdale.

E sempre in tema di citazioni illustri è Jimmy Page a rivendicare il ruolo di ispiratore della ballad acustica dal retrogusto folk intitolata Drink and A smile. Espressività solare di tempi tersi, impone arpeggi onirici alle retrovie del rock di matrice Western.

Il tracciato ritorna invece sui binari consueti sia con Doghouse che soprattutto con Mercy you Mercy Me, vero e proprio "confetto" musicale innescato nella canna a sei corde di Norum.

L'epilogo in una litania dolce, ma al tempo stesso leziosa e che involontariamente rende 5 ultraquarantenni pienamente emancipati dal consenso strappalacrime di sognanti Teen Agers immolate al soldo di riviste platinate e poster dei vari Simon Lee Bon e Joey Tempest di turno.

Perché in fondo nonostante non anticipino più stadi ululanti, quei poster ormai ingialliti dalla retrovie del tempo, per molti, intatta la loro evocazione d'un tempo, senza volerlo a tratti compiono persino il miracolo di intensificarla.

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