Quando ero piccolo avrei voluto tanto imparare a suonare il sassofono.
Nella mia infanzia dorata vissuta nella seconda metà degli '80 il sax per me significava il suono rilassante e familiare che istintivamente ricollegavo a motivi, film, sigle di cartoni animati a me cari.
Non se ne fece nulla, complice anche un padre troppo simpatico e ottimista che continuava a dirmi: "Se suoni il sassofono ti viene l'enfisema polmonare".
Non imparai a suonare alcuno strumento per anni, poi, durante quel periodo orrendo fatto di brufoli e tempeste ormonali (per cui qualcuno una volta cresciuto ha il coraggio di provare nostalgia) chimato adolescenza ci fu un'altra folgrazione: la chitarra. Pochi purtroppo superano indenni i 14-15 anni senza la voglia di imbracciare una chitarra e mettersi a fare i rocker scalcinati di provincia; complici anche Wes Montgomery, Joe Pass, Jim Hall però mi innamorai di quello strumento fin troppo inflazionato fra i liceali brufolosi (per la cronaca, l'enfisema non l'ho avuto ovviamente ma la tendinite sì).
I grandi amori però, si sa, non si dimenticano facilmente e prima o poi si riaffacciano. Talvolta basta anche l'ascolto casuale di un disco come questo.
Parker, per chi non lo conoscesse, è un sassofonista inglese nativo di Bristol, classe 1944. Mosse i primi passi nel mondo del jazz ispirandosi a Paul Desmond e al Cool Jazz principalmente ma ben presto capì che la sua vera natura era un'altra. La sua tecnica, molto innovativa e particolare è caratterizzata dall'uso del "circular breathing" (tecnica usata dai musicisti che suonano strumenti a fiato che richiede grande coordinazione e che consiste nel produrre un lungo suono senza interruzioni respirando dal naso e soffiando contemporaneamente nello strumento l'aria immagazzinata) e dall'utilizzo di pattern molto veloci incastrati a ripetizione e combinati in modo tale da dare spesso l'impressione che i sassofonisti siano due o tre. E invece no, c'è sempre e solo lui a soffiare come un dannato dentro quel sax.
Nel 1968 suonò in quella pietra miliare del Jazz europeo che è "Machine Gun" di Brotzmann. Da lì in poi una sequela impressionante di grandissimi dischi, di cui "Monoceros" (1978) è senz'altro uno dei più rappresentativi per la forza delle improvvisazioni e la varietà timbrica che riesce ad imprimere ad ogni traccia.
Ogni volta che lo riascolto mi prende la voglia di appendere la chitarra al chiodo, comprare un sax e sfidare stoicamente l'enfisema polmonare.
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