Benomale gli Evergrey hanno da diversi anni trovato la loro formula consolidata, e questo ha reso la mia attesa meno sentita del solito. Quello che mi aspettavo infatti non era altro che l’ennesimo album di metal melodico e tagliente al punto giusto, senz’altro grandioso perché gli Evergrey sono maestri della solidità e della qualità ma non più in grado di sconvolgere. Tuttavia il modo per stupire lo trovano sempre, e “Theories of Emptiness” a suo modo sa stupire.

La cosa che più mi ha colpito è la forte componente melodica e il notevole spazio concesso ai brani melodici. Ebbene sì, la melodia è prevalente in circa metà dei brani, almeno 5 tracce sono composizioni in cui le aperture melodiche dominano la scena mentre di metal ce n’è addirittura poco, e quel poco che c’è tenta di nascondersi o si affaccia timidamente. Ovviamente si tratta di melodie sempre piuttosto grigie, autunnali e spesso notturne. La traccia emblema di tutto questo è senza dubbio “Ghost of My Hero”, lenta ma dalla melodia potente, che sembra proprio la cartolina di una tranquilla e malinconica sera d’autunno. Molto notturna è anche “The Night Within”, il titolo dice tutto, si tratta però di una notte un po’ più movimentata, un po’ tempestosa ma non troppo, con i passaggi di synth melodici che sanno proprio di brezza serale; in ogni caso la melodia è molto forte e quei riff duri qua e là non sembrano sufficienti per poter parlare di vero e proprio brano metal. “Our Way Through Silence” ha invece un’impronta decisamente più rock che metal, con riff decisi ma non taglienti e ancora una melodia cerulea e struggente, è una specie di gothic rock diretto ed efficace. Ascriviamo a questo ciclo di brani anche la conclusiva “A Theory of Emptiness” che con i suoi bagliori di luce rappresenta la conclusione breve, rilassata e distesa di un percorso più o meno tortuoso. Ma il brano in assoluto più sorprendente è senz’altro “Cold Dreams” (con la figlia di Tom Englund ai cori e Jonas Renkse dei Katatonia), che suona praticamente come un brano degli Arena più che degli Evergrey: le tastiere frastornanti e corali e la chitarra spigolosa creano un’atmosfera dark prog incredibile che non può non far pensare alla band di Clive Nolan e Mick Pointer.

Ma la sorpresa non è confinata alla presenza di diversi brani melodici, anche il resto della tracklist offre delle chicche che non passano inosservate. Le aperture in stile Arena le troviamo anche nella estesa sezione centrale di “To Become Someone Else”. Le strofe di “One Heart” hanno una deviazione verso un roccioso hard rock che mantiene comunque una pesantezza metal, mentre il ritornello brillante e corale strizza l’occhio persino all’AOR. “Say” invece non si fa problemi ad inserire staffilate taglienti che rimandano al djent e a mischiarle con un robusto organo. I brani più classici e meno sorprendenti, quelli che restano in linea con le produzioni dell’ultimo decennio, sono fondamentalmente “Falling from the Sun”, “We Are the North” e la a mio avviso non proprio entusiasmante “Misfortune” (per me il punto più basso dell’album).

La sensazione generale è che la band abbia provato ad andare oltre senza tradire la propria natura, senza snaturarsi o stravolgersi. Sembra manifestarsi l’intenzione di andare oltre il metal, il metal costruisce l’impalcatura che sorregge il tutto ma è come se non fosse più la cosa più importante, quella su cui focalizzare l’attenzione. A dire il vero non è esattamente la prima volta che succede, anche “Hymns for the Broken” aveva una forte impostazione melodica che metteva quasi in secondo piano quella più metal, anche se le coordinate erano un tantino diverse.

Apprezzo molto il fatto che gli Evergrey trovino comunque un modo di stupire, di non sembrare sempre troppo uguali e ripetitivi. C’è da dire però che in passato avevano saputo reinventarsi in maniera ben più radicale: era indubbiamente più netto il passaggio che vi fu fra i primi 5 album di natura melodic prog power e il suono ruvido di “Monday Morning Apocalypse”, poi subito nuovamente stravolto con il metal oscuro e cavernoso di “Torn”, fino al metal moderno, tagliente e melodico al punto giusto degli ultimi dieci anni.

Diciamo che di quest’ultimo decennio spiccano tre album su tutti: da una parte quest’ultimo e “Hymns for the Broken” per la loro vocazione melodica, all’opposto “The Atlantic” per il suo stile invece decisamente affilato e tagliente; “The Storm Within”, “Escape of the Phoenix” e “A Heartless Portrait” invece sono più “ordinari”, di questi l’album del 2021 è quello che trovo meno ispirato. In ogni caso gli Evergrey rimangono una solida garanzia.

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