Confesso di aver pensato molto a quale introduzione scegliere per parlare di questo disco. Ebbene, sono arrivato al punto di scendere a patti con me stesso, pacificare l’orgoglio e ammettere di non riuscire a trovarne alcuna decente. Buffo vero? Un pezzo di musica per cui si spendono ore, giorni di attenti e pazienti ascolti, e conseguenti riflessioni, e poi il panico della pagina bianca che chiude il rubinetto dello scrittore.

E così sono partito da quello che non so.

Certo mi sarebbe piaciuto scrivere in maniera dettagliata della re-union (o forse sarebbe meglio parlare di union) di tre amici che finalmente, dopo anni, possono uscire allo scoperto e proporre un disco insieme. Mi sarebbe piaciuto, ma non sono mai stato un fan sfegatato dei tre, anzi: a dirla tutta, Gazzé l’ho sempre considerato troppo prolisso, Fabi melenso, Silvestri un tantino troppo scemo. Evvai, ecco i biglietti per la fiera del pregiudizio. Sarebbe stato un buon punto di partenza parlare delle rispettive discografie, proprio perché questo album rappresentava ai miei occhi un punto di arrivo.
E quindi mi ritrovo ad ascoltare questo disco senza le dovute basi per parlarne, come un trampoliere a cui hanno infilato i nuovi attrezzi dal primo giorno. A suo tempo la prima reazione, devo ammetterlo anche contro me stesso, fu stupefacente, pur se mitigata dai primi singoli che dall’aprile 2014 facevano capire gli ingredienti dell’album (nell’ordine, erano usciti Life is Sweet, L’amore non esiste e Come mi pare).
Quindi non mi dilungherò qui in grandi supercazzole sbrodolate per confondere e commuovere gli animi, come spesso ho visto fare da colleghi ben più illustri; perché sono certo che, in fondo, questi tre in qualche modo ci abbiano giocato e alla lunga deve essere stato controproducente anche per loro. E fidatevi che è un peccato, perché tanti buoni sentimenti sbandierati in giro per l’Italia rischiano di oscurare il valore complessivo di quest’opera. Più che per qualche brano sparso qua e là (tra i meglio riusciti citerei almeno la raffinatissima Alzo le mani e le up-tempo Life is Sweet e Come mi pare), credo infatti che un album come questo tragga il meglio di sé nel momento in cui lo si considera con la prospettiva unitaria di un’unica, riuscita, scappatoia artistica. Si sente forte, fortissimo in ogni passaggio che questo è un disco studiato centimetro dopo centimetro, eppure i tre romani sono in qualche modo riusciti a porre (quasi) sempre in primo piano la spontaneità delle registrazioni – esemplare, in questo caso, i fruscii di chitarra in Alzo le mani o la giocosità della loro amicizia (L'avversario). Vederli cantare insieme fa correre un brivido lungo la schiena, esattamente quello che mi ha provocato la prima volta che ho visto la magnifica versione unplugged di Life is Sweet in uno studio tedesco, e proprio in quel momento ho capito che i paragoni con i grandi del passato – qualcuno ha detto CrosbyStillsNash&Young? – non erano proprio buttati là a caso. Stranamente la spontaneità rimane per gran parte del disco, nonostante (o forse, grazie a) il parterre che partecipa alle registrazioni: tra i tanti, mi sembra doverosa la menzione per un grande Roberto Angelini (un talento a cui facciamo ancora fatica a dare fiducia) e il pur patinato ma sempre grande Fabrizio Bosso.

Insomma, a parte le banalità e i soliti luoghi comuni, tutto funziona. Abbiamo per le mani un grande album: ben suonato, ben confezionato, con un’amalgama pregevole da parte di chi l’ha composto, e si può stare sicuri che questa è merce rara, e lo è sempre stata. Pure i testi meritano un ascolto più che attento, ma questo in fondo già si sapeva. Sicuramente i tre singoli sono fra i pezzi migliori del lotto; ma Canzone di Anna, singolo postumo con la sua coda battistiana tanto cara all’allievo Fabi, la miniatura Il dio delle piccole cose, per la quale troviamo un Gazzé più composto e meno sbrodolone, o il divertito terzomondismo di Spigolo Tondo, che vede Silvestri in gran forma, sono lì a dimostrare coesione e valore aldilà di ogni forma di pregiudizio. (Detto per inciso, quello dei tre che mi è sempre sembrato un passetto più avanti è proprio Daniele, sarà perché nei concerti suona egregiamente più strumenti, o forse semplicemente perché mi sembra quello che in questo momento abbia più da dare rispetto agli altri due. Staremo a vedere).

Si è detto molto di questo disco alla sua uscita, e un po’ mi spiace parlarne solo adesso. Chi ha voluto puntare i riflettori sul nuovo supergruppo, chi ha addirittura tirato in ballo i famosi mostri sacri dei sixties, ma si sa che etichettare è il nostro hobby preferito e in fin dei conti aiuta a vendere meglio. Volete un consiglio? Se vi piace il folk, apprezzate gli incastri vocali, siete amanti della musica “intelligente” e finemente elettronica, ma soprattutto non siete fans sfegatati – come se ne vedono ancora tanti in giro – di questi tre cantautori ormai ex-underground (e che ancora a volte giocano a esserlo), questo è il miglior nuovo disco del 2014 che non avete ancora ascoltato. Per tutti gli altri, rivolgersi alla cassa con il box di pino daniele.

«Abbiamo fatto bene. il giorno dopo la fine di questo viaggio lungo due anni è tutto ancora più chiaro. Solo con Daniele e Max avrei potuto farlo. E non è questione di bravura. Esistono tanti cantanti e musicisti dotati non è quello. Per condividere un applauso c’è bisogno di uomini che abbiano fatto pace con la propria identità, che tra quello che hanno ricevuto e quello che hanno perso abbiano trovato un equilibrio, che sappiano godere anche delle gioie di rimbalzo, che sappiano aspettare mettersi da parte ed ascoltare. Il palcoscenico può esaltare tutte le nostre vanità, le repressioni come la generosità. Non sarebbe stato possibile per me condividerlo con chi vive suonare e cantare come una dimostrazione di forza come atletica competizione. […] Per questo come ultima foto del nostro percorso non mi viene istintivo pubblicare una dell’indimenticabile concerto di ieri sera ma quella fatta all’incrocio di una strada qualsiasi nel nostro polveroso struggente viaggio in Sud Sudan dove ci siamo riconosciuti. Quello che sento ci contraddistingue in qualche modo, non tanto tre artisti che godono su di un palco, quanto tre uomini che si divertono a sporcarsi con la terra. Grazie. E più di tutto grazie Daniele e grazie Max perche quello che abbiamo adesso ancora più di quello che avevamo prima è una parola semplice e spesso usata a sproposito e cioè amicizia, quella che prima sorregge e poi spinge avanti, e quindi avanti sia. Con il mio affetto la mia stima e la mia riconoscenza». (N.F.)

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