Fabrizio De André - L'indiano (1981)
Mentre continui sospiri mi accerezzano le orecchie, mi domando quale umore possano aver restituito, a quei fortunati interlocutori, gli occhi di Fabrizio De André, all'alba degli anni '70, a cavallo degli anni '80 o completamente adagiati nell'ultimo decennio del '900. Probabilmente umori tanto distanti tra loro, quanto variegata è la differenza tra la luce invernale e quella primaverile. Pescare alla cieca, nella discografia di Faber, vuol dire imbattersi in lavori che paiono tali inconcepibili manifesti di un uomo che ribolliva di passione e capacità creative al di là del normale. Un orecchio in perenne ascolto, degli occhi disperati di lacrime e una mano pronta a raccontare il mondo, le labbra a farsi mezzo, da un punto di vista privilegiato, seduto su di un'altra sfera.
Proseguendo il discorso iniziato con "Rimini" e con Massimo Bubola sempre al suo fianco, in veste di fidato co-autore dei testi (e a volte anche qualcosa in più) e abile cesellatore di sonorità ancora una volta improntate sulla tradizione folk-rock americana, Faber si tuffa nuovamente in quel suo modo di parlare alla gente che tanto ama. Il concept album, vero e proprio fiore all'occhiello della discografia del cantatuore genovese. Certamente lontani dall'intramontabile "Buona Novella" e dalla sua sterminata e altrettanto "buona" verbosità, "L'Indiano" è ancora una volta un lavoro basato su un tema portante, figurato nel raffronto della condizione di vita del popolo sardo e delle barbarie subite dagli Indiani d'America. (da qui, il quadro della splendida copertina, "La Sentinella", di Frederic Remington).
Il rapimento, inevitabilmente, segnò brutalmente la stesura dell'album, così come i temi umorali trascinati tra le righe o sputati in tutta franchezza. Faber, con la spinta propria di una mente senza confini, utilizzerà l'evento stesso, per raccontare amorevolmente la terra che per alcuni mesi l'ha "rinchiuso", per rivestirla di passione e per discolparla. Questo ce lo dice il tema stesso scelto e la profonda concordia che Fabrizio pare aver acquistato, tra i solchi di questo lavoro (E pensare che si trovò, anni addietro, ad un passo dall'addio. Folgorante e decisivo, fu, in questo senso, il tour con la PFM).
La presenza di Bubola e del suo orientamento più votato al "rock", dicevo, appare evidente sin dal brano introduttivo, "Quello Che Non Ho", dalla carica e dall'incedere prepotente, accompagnato da un'intro di spari e corsa alla selvaggina, in qualche disperata prateria indiana, ove si racconta di come la venuta dell'uomo bianco, abbia snaturato la perfetta coesione con la natura e con la vita, che gli Indiani d'America avevano sposato, così distanti da beni materiali, dei quali, in fondo, possiamo benissimo fare a meno. "Quello che non ho, è questa prateria, per correre più forte, della malinconia...", canta Fabrizio, con voce mesta di chi, sa d'aver perso il bene più prezioso, a scapito del progresso coatto. Percussioni in prima linea, basso incalzante e una splendida outro sinfonica, per un inizio all'arma bianca. E' la confisca della prateria. Gli Indiani d'America sono annientati come una tiepida notte primaverile. Per un brano dedicato ai "pellerossa", si passa al raffronto col popolo sardo, tanto caro, con la delicata "Canto Del Servo Pastore", struggente ballata sull'apertura ai dilemmi dell'esistenza, ora così pacificamente chiari nella loro essenza ed importanza, sulla bocca di chi, il servo pastore sardo, racconta di come la più selvaggia e diretta vita a contatto con le cose della natura, l'abbia portato ad essere all'oscuro anche delle sue origini. "Qual'è il mio vero nome, ancora non lo so". Natura che però trasporta in ogni ciclo, un frammento della sua vita, "Sopra ogni cesto da qui al mare, c'è un po' dei mie capelli". Insieme al rifiuto cosciente e coerente dell'avvento della società tecnologica, c'è però, anche la struggente riflessione sugli amori mancati, "L'amore delle case, l'amore bianco vestito, io non l'ho mai saputo e non l'ho mai tradito". Il tutto si regge su tenui note al piano, delicati arpeggi, flauti distanti e sulla voce, poche volte tanto illuminata, di Fabrizio. "Fiume Sand Creek", racconta di un eccidio vergognoso, ahinoi, realmente perpetrato, ai danni dei pellerossa. L'intro, così esile eppure grandiosa, echeggia di momenti passati, nelle verdi praterie, che fecero da teatro alla sanguinosa e impari lotta. La canzone è un fiorire di immagini angoscianti, dal retrogusto però, tremendamente dolce. Basti pensare alla figura del nonno, che rassicura il nipotino terrorizzato, raccontandogli un oceano di bugie. "Ora i bambini dormono, nel letto del Sand Creek". Strumentalmente, anche in questo caso, un intreccio di chitarre acustiche, percussioni varie, cori, e l'inimitabile tono caldo e languido di Fabrizio, trascinano la canzone, che diverrà un cavallo di battaglia nei concerti. L'amore per quella terra incontaminata, la Sardegna, emerge da De Andrè, in tutto il suo fulgore, nell'intrigante e atipica, "Ave Maria". Si tratta di un canto popolare sardo, riadattato splendidamente e innalzato fino in cielo, dalla splendida voce di Mark Harris. L'intro, che ricorda un po' i "Pink Floyd" di "Animals", ci porta alla prima osservante preghiera, "Deus, Deus ti salve Maria". E' una delle poche canzoni, dove non si senta la voce di Fabrizio (se non nei cori). Eppure è una delle più intense. Dimostrazione di come egli fosse anche un grandioso "direttore d'orchestra" e uno sperimentatore.
La canzone che meglio restituisce il De André post-rapimento, è forse "Hotel Supramonte". Il luogo che ospitò Fabrizio e Dori, viene qui reinventato con un dolce appellativo, sintomo di come quei mesi trascorsi legato e bendato, accanto alla sua compagna, debbano aver svegliato un nuovo uomo. E' una ballata struggente, delicata, voce e chitarra, alle quali si aggiunge un violino singhiozzante, che ripercorre le tappe salienti di quei giorni, con Fabrizio circondato di natura, sospiri, pioggia e Dori, che invoca teneramente più e più volte nella canzone. Come ebbe modo di affermare, senza lei al suo fianco, probabilmente non ce l'avrebbe fatta a sopportare tutto quello. Nella tremenda esperienza, lo stesso Fabrizio arrivò a "consigliare" o sperare per tutti una vicissitudine simile, che come nient'altro, riavvicina ai bisogni essenziali e alle cose all'apparenza minute della vita, ai piccoli piaceri, alle "banali" conquiste. E' inoltre evidente il perdono, utile ribadirlo, che pende dalle labbra di questa canzone, per i rapitori. Dopo un quartetto d'intensità cruda, si torna ad apparenti atmosfere più solari, con "Franziska", che racconta la storia della donna di un furfante, costretta a vivere sola e nel suo misero ricordo, in quanto l'amato, è costretto a darsi alla macchia. Divertente, ma cruda, filastrocca, di nuovo adagiata sul ritmo scanzonato e sulla voce di Fabrizio. Parlare del sogno della libertà, come di una donna fatta a pezzetti e ricomposta di speranza, dagli elementi del cosmo, è un certo tipo di farina "sacra", che solo personaggi come De André potevano buttar fuori. "Se Ti Tagliassero A Pezzetti" è, a parere di chi scrive, forse la migliore traccia dell'album, una vera e propria storia d'amore d'altri tempi, tra Fabrizio e la libertà, raccontata con immagini primaverili, quasi bucoliche, con una malinconica linea di chitarra, che in ogni verso si staglia alle spalle del cantato, quasi ad annunciare quella "nuvola di dubbi". E dopo l'inevitabile richiamo alle ali della libertà, inevitabile quando si parla di pellerossa, si chiude con la descrizione scherzosa della vita che sarà, in "Verdi Pascoli". Come il titolo lascia intendere, con un ritmo ipnotico e aperta da un inaspettato ma breve drum solo, Fabrizio si lascia trasportare in una descrizione del Paradiso degli Indiani, che segna forse la fine delle soffernze "...presto la notte se ne andrà, con le sue perle stelle e strisce in fondo al cielo." La sofferenza dei pellerossa finisce, ma forse inizia quella dell'ascoltatore, che vorrebbe sentire le ultime note ricongiungersi istantaneamente a quei cori da caccia, per rigettarsi in questo agrodolce affresco di efferatezza umana e antico richiamo della natura.
Denunciare l'eccessiva mercificazione commerciale di De André, avvenuta secondo alcuni in questo album, avviluppato in trame lessicali all'apparenza meno ricercate e immaginifiche e arrangiamenti dannatamente curati e poco da chansonnier, vuol dire privarsi di un amico fragile molto ispirato. E sarebbe un peccato che nessuna alba laverebbe mai, per un lavoro senza punti deboli, fresco e molto attuale.
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