C'erano queste cassette, che mio babbo metteva sempre quando mi portavano ai funghi. Una parlava di nani e oculisti, mentre l'altra aveva uno strano pellerossa con la faccia di pietra in copertina, e parlava di massacri indiani e donne fatte a pezzetti. Odiavo andare per funghi, odiavo alzarmi presto e odiavo tutta quella strada piena di curve che inevitabilmente mi faceva star male di stomaco. Però la musica che sputava l'autoradio mi piaceva, anche se ne allora ne capivo ben poco, e pazienza se durante il lungo tragitto la cassetta ripartiva infinite volte, a me andava bene continuare ad ascoltarla guardando fuori dal finestrino per ore e ore.

Quell'album con il pellerossa dalla faccia di pietra era Fabrizio de André, ma per tutti è "L'Indiano".

"L'Indiano", registrato nel 1981 e che vede di nuovo la collaborazione di Massimo Bubola (probabilmente questo album è il prodotto più felice della collaborazione dei due cantautori), nasce dall'idea di de André di creare un parallelo tra la storia dei pellerossa e quella dei sardi. Due popoli fieri, chiusi, trovatisi improvvisamente a contatto con genti diverse che, in maniere differenti, li hanno assoggettati.
Data questa premessa ogni canzone del disco può avere una doppia chiave di lettura, a partire dalla prima traccia, Quello che non ho, un pezzo blueseggiante che può avere come protagonista tanto il cantautore genovese quanto l'indigeno sardo, il cui stile di vita ed i cui bisogni si contrappongono a quelli dei ricchi forestieri che invadono l'isola con le loro ville, le Ferrari, e i motoscafi.
Già alla seconda traccia ci si rende conto che il ritmo di quel pezzo era nient'altro che un inganno, la musica diventa dolce e il sodalizio tra de André e Bubola mostra i suoi frutti maturi con una lirica a dir poco struggente. È il Canto del Servo Pastore. Qui la contrapposizione tra i due mondi diviene implicita: a parlare è un pastore a cui nessuno ha mai nemmeno "imparato" il nome ma che nondimeno mostra una sensibilità straordinaria nei confronti di tutto ciò che lo circonda, ammantandolo di poesia. Nonostante questo, però, rimane sempre un servo.
Il terzo pezzo è probabilmente il più famoso dell'album, Fiume Sand Creek. I sardi vengono messi da parte per cantare di un vero massacro di indiani, avvenuto nel 1864 ad opera del colonnello Chivington, e visto con gli occhi innocenti di un bambino.
La prima metà dell'album si chiude con un canto tradizionale sardo, una Ave Maria che pare anticipare la Smisurata Preghiera che de André scriverà molti anni dopo.

La seconda parte si apre con uno dei pezzi più sofferti, e più belli, della produzione del cantautore genovese. Quell'Hotel Supramonte dedicata al rapimento dell'autore stesso e di Dori Ghezzi, nell'estate del '79. Attraverso una lirica intensa ed una musica dolce e pacata de André mostra innanzi tutto una delle risposte del popolo sardo alla "invasione" che è costretto a subire: il banditismo. Ma intrecciato a questo l'autore riesce a tessere un altro tema, l'amore, e le sue sono le parole di un innamorato il cui unico pensiero è l'amata che in quel momento si trova a soffrire con lui e per lui. Ogni descrizione ulteriore sarebbe inutile, l'unica è ascoltarla, per rendersi conto della forza che assumono le sue parole, le sue metafore (E le metafore sono pericolose, ammoniva Kundera, da una sola di esse può nascere l'amore).
Mi limito a riportare un'unica strofa:

E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome
ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme
ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
cosa importa se sono caduto se sono lontano
perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
ma dove dov'è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore.

Il discorso sull'amore continua anche nel pezzo successivo, Franziska, ma con una sorta di ribaltamento: L'amore cantato stavolta è quello tra una ragazza ed un bandito alla macchia, un "marinaio di foresta", e si traduce unicamente in solitudine e dolore, senza neanche la possibilità di un contatto fisico tra i due innamorati (e in tema di contrapposizioni è da notare anche la musica quasi gioiosa che fa da contraltare alla tetraggine di ciò che viene cantato). E l'amore ritorna anche nella canzone che segue, un altro momento altissimo dell'album, Se ti tagliassero a pezzetti. Come spesso accade con de André l'amore cantato è un amore finito ma non per questo meno assoluto, totale. La doppia lettura si fa in questa canzone più fine ma a ben vedere ancora visibile: chi canta de André, una donna in carne ed ossa o la sua amata di sempre, la Libertà? Qualunque sia la risposta che si vuole dare, certo non è un caso che dal vivo il verso "signorina fantasia" diventasse spesso "signorina anarchia".
L'album si chiude con la classica eccezione alla regola: Verdi Pascoli è una sorta di dedica ai figli da parte di un padre troppo distratto dai propri concerti, e se ne scorre via allegra e festosa.

Come tutte le opere di de André è impossibile non consigliare anche questa.
È un album di metafore e speranze, ogni canzone una perla che si mostra a chi la vuole scoprire. E, a volte, quando il disco finisce puoi ritrovarti un po' più confuso a guardare fuori dal finestrino, pensando che là, proprio dietro quegli alberi, gli indiani si stiano prendendo la rivincita.

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