Chissà cosa balenò nei pensieri di Fabrizio De André, quando nel 1980 per la prima e unica volta nella sua carriera gli venne proposto (come amava definirlo lui), "un brano su commissione", nientepopodimenoché da mamma RAI.

 Era certamente in controtendenza con se stesso, in quanto la sua indole anarchica di libero pensatore moderno, non gli avrebbe concesso di sedersi ad un tavolo con i capoccioni di Viale Mazzini. Ma punto saliente dell’incontro, fu che il lavoro, sarebbe stato utilizzato come sigla per dei documentari, su due fatti di cronaca nera, una delle quali riguardava uno dei più illustri intellettuali del ‘900, Pier Paolo Pasolini.

 Come molti della sua generazione, alla quale Pasolini ispirò una concezione di visione universale e laica del mondo, anche De André provò risentimento e avversione, quando in quella sciagurata notte novembrina, nella polpa del drammatico decennio appena conclusosi, si consumò miserabilmente l’assassinio del regista e scrittore bolognese, cosìcché colto da senso di riconoscimento nei suoi confronti, decise di omaggiarlo con questo nuovo progetto dal titolo “Una storia sbagliata", accettando la proposta della RAI.

 Reduce dalla trionfale tourneé con la P.F.M. alla quale seguì in agosto, un traumatico sequestro in Sardegna durato quattro mesi, De André possedeva in teoria tutti i requisiti per concedersi una ponderata sosta, ma senza desistere si era già messo all‘opera, per quel nuovo album rinominato successivamente “L’indiano”, con la preziosa complicità dell’amico Massimo Bubola, già collaudata con successo nel precedente “Rimini”, così anche questo ghiotto e onorevole sacco di farina, piombato dal palazzone romano della TV di Stato, fu preso al volo dai due compagni di merende, impastato a dovere e sfornato in autunno su un succulento piatto da 45 giri, ultimo in assoluto della sua discografia.

 Partiamo stavolta “in direzione ostinata e contraria”, come il Faber prediligerebbe, dal lato B “Titti”, uno dei pezzi più leggeri e scanzonati non propriamente peculiari, della discografia del cantautore genovese, che richiama di gran lunga quello stile più disteso, caratteristico di alcuni brani de “L’indiano”, citato in precedenza.

Liberamente ispirato al romanzo “Dona Flor e i suoi due mariti” di Jorge Amado, narra il conflitto interiore della giovane vedova Titti, ancora innamorata della suo compianto coniuge, spirato fatalmente a causa dei vizi e del libertinaggio della propria essenza, in contrasto con il nuovo partner, figura pacata e premurosa ma priva di stimoli e nervi: “Titti aveva due amori uno di cielo, uno di terra, di segno contrario uno di pace, uno di guerra.”

 Capovolgiamo il disco sul piattone per dar luce alla più celebrata “Una storia sbagliata”. Una brillante chitarra e una delicata armonica aprono le danze di questa splendida ballata in tre quarti, per poi assuefarsi ad un ritmo composto magistralmente da basso, batteria e pianoforte. Fabrizio ci rapisce, interpretando il brano in maniera eccelsa e con un tono coerentemente coordinato su tutte le parole che scorrono veloci e sicure, risaltando lo sperpero di nefandezze e pregiudizi, vomitate negli anni dalla stampa, dai media e dalla così detta “gente normale“, palesemente pronti a sentenziare aspramente da dotti e abili inquisitori borghesi, quella scandalosa “storia diversa”, a fronte di una più consapevole minoranza di “gente speciale”, portatrice sana di una presa di coscienza, della “storia comune” che prende corpo con queste vite, fuggendo dolcemente ai sospiri del “vento che ai bordi le ha scolpite ” e defilandosi da uno spaccio grossolano di mediocre bigottismo.

 Gli argomenti, paiono esclusivamente ruotare intorno al caso Pasolini, ma si mescolano con maestrìa alla protagonista dell’altra puntata dello “speciale RAI”, ovvero Wilma Montesi massacrata a Torvaianica su “una spiaggia ai piedi del letto” nel 1953 e vittima di una vicenda “mica male insabbiata” a causa di coinvolgimenti nelle indagini, di familiari di noti politici dell’epoca. L’abilità di unire le tragedie, quella di un gigante della cultura italiana e di una giovane ventenne di umili origini è alla base della genialità di De André, che nel suo smarcato realismo e riagguantando con più scioltezza, quella tematica già sentita in “Tutti morimmo a stento” sull’uguaglianza di fronte alla morte, non rende certamente giustizia ai due, ma tenta in qualche modo di evitare loro un ennesimo colpo alla giugulare, scagliato da un sudicio grumo di ipocriti moralisti e reazionari, chiedendo loro, "Cos'altro vi serve da queste vite?".

Purtroppo la scelta (condivisibile o meno) di non inserire ne "L'indiano" i brani, peserà molto su di essi, rendendo il loro ascolto possibile solo agli acquirenti del vinile o a casuali passaggi radiofonici, in quanto la loro pubblicazione in una raccolta ufficiale di Fabrizio De André, avverrà su compact disc solo 25 anni dopo.

Finalmente “una storia giusta”.

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