Una bottiglia d’acqua scolata a metà, una radio accesa, un cd che gira, un ragazzo sul letto che per sette volte si è alzato ad aprire lo sportelletto per cambiare disco. Hic et nunc … “Volume 8”. Dopo il sette c’è l’otto, no? Il sette è il numero perfetto o magico o chissenefrega. Allora perché mi sono alzato per l’ottava volta con l’intenzione di cambiare disco? Per completare il percorso.
La carriera di De André può essere divisa in due macrosequenze: la prima (1967 – 1975), cantautoriale; la seconda (1978 – 1996), quella più “sperimentale”, più musicale, meno incentrata sul testo in sé, ma sulla lingua e sulla musicalità di essa. Questa notte ho deciso di passarla con chitarra e voce nelle orecchie, una voce cupa ma paterna a farmi compagnia. Ora che si avvicina alla fine questo mio percorso d’ascolto, penso a quante volte io abbia ascoltato questo album nello specifico, questo ottavo volume che chiude idealmente un periodo, un’era. In macchina, a casa – su pc o alla radio comprata giorni fa –: ovunque mi fosse possibile. Nonostante sia considerato un disco minore e in effetti non sia il migliore dell’artista genovese, sono molto legato ad esso. È qui che De André sembra più triste e malinconico che mai. Non proprio depresso, ma malinconico, profondamente immerso nel ricordo di qualcosa che è stato, è, ma che di lì a poco non sarebbe stato. “Volume 8” è un album unitario, eppure Faber divide il lavoro con Francesco De Gregori, suo illustre collega, che nel gennaio di quello stesso anno (1975) aveva pubblicato “Rimmel”, considerato all’unanimità come il suo capolavoro. Le menti dei due cantautori sono perfettamente in sintonia, c’è una sinergia magica, unica. Nel disco non mancano le cover. In verità ce n’è solo una qua: “Nancy” di Leonard Cohen, continuo punto di riferimento di Fabrizio. Nel disco precedente quest’ultimo aveva già italianizzato un altro pezzo dello chansonnier canadese, il suo più famoso, sempre dedicato a una figura femminile: “Suzanne”. Entrambe le versioni dei brani di Cohen fatte da De André non possono non commuovere, soprattutto “Nancy”; scommetto che una lacrima su qualsiasi viso sia scesa e che i brividi lungo qualsiasi schiena siano corsi nell’udire frasi come “Un po’ di tempo fa col telefono rotto cercò dal terzo piano la sua serenità” oppure “Si innamorò di tutti noi, non proprio di qualcuno, non solo di qualcuno”.
Splendide e perfette a livello musicale/testuale “La cattiva strada” e “Giugno ‘73”, toccante e personale “Canzone per l’estate”. “Il respiro del cane che dormiva” fa chiudere gli occhi e immaginare, e “gli occhiali che tra un po’ dovrai cambiare” ti fanno pensare a qualcosa di quotidiano, di molto semplice e preciso, quasi inutile da dire. E la domanda del ritornello spiazza chiunque “com’è che non riesci più a volare?”. Tutti dobbiamo fare i conti con la nostra staticità, con la nostra lenta decadenza. Chi non ha vissuto il “francescanesimo a puntate”? Chi è che riesce ad essere veramente fedele a sé stesso e nella ricerca essere coerente con il proprio sentire? Una denuncia delicata eppure radicale al borghese medio che si crea il proprio mondo attraverso ciò che possiede e, nonostante questo, non riesce a trovare la propria dimensione. Secondo me, in molte parti, De André Senior parla di sé stesso e della sua incapacità di uscire dalla propria condizione di “figlio di papà”, con un’autoironia invidiabile.
A chiudere il disco c’è forse il pezzo più inquietante e autobiografico del cantautore genovese, “Amico fragile”, che lo stesso autore riconosceva come il suo più riuscito. Scritto durante una sbornia, libero da blocchi e da freni, ma con la sua solita vena ironica e un registro abbastanza alto, De André, in “Amico fragile”, riprende musicalmente il già citato Cohen (“Avalanche”). Fabrizio canta e suona il suo congedo, il suo rifiuto, e alla fine del pezzo dice, anche con un po’ di spocchia autoreferenziale “E mai che mi sia venuto in mente di essere più ubriaco di voi”. Però, a pensarci bene, non è poi così paracula come cosa. Alla fine lui voleva solo “legittimare” la sua confessione, dichiarando la sua completa sincerità e il pieno possesso delle facoltà mentali nel momento della scrittura.
“Amico fragile” (e quindi "Volume 8") chiude il primo periodo della carriera di De André, il quale sa di dover cambiare strada e di smettere i panni del cantastorie “classico”. Inizialmente (“Rimini” e “L’Indiano”) andrà un po’ a testoni, ma poi si affermerà con un capolavoro unico nel suo genere, riconosciuto anche all’estero per la sua originalità, “Creuza de Ma” dell’ ’84, completamente scritto in genovese.
È appena finito “Volume 8” e mi accingo a scolarmi l’altra metà della bottiglia d’acqua. A ciascuno il suo, no? Guardo il lato positivo: non sarò mai più ubriaco di nessuno.

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