Evento a dir poco epocale è quello che scuote la già matura scena Rock-Blues inglese a cavallo tra i '60 e i '70: dalle ceneri di due illustri formazioni (gli Small Faces e il Jeff Beck Group) nasce una delle principali Rock'n'Roll bands che la storia abbia mai conosciuto, capace di un sound sanguigno, verace e genuino come poche altre, e devastante soprattutto nelle esibizioni dal vivo, tanto da poter tranquillamente rivaleggiare su questo particolare terreno con Stones e Who (pur riscuotendo un seguito senz'altro inferiore rispetto a quello dei due monumenti ricordati). Dagli Small Faces se ne vanno (è l'anno campale 1969) il bassista e validissimo compositore Ronnie Lane, il batterista Kenney Jones e l'organista e pianista Ian McLaglan, costringendo Steve Marriott (già leader di quel leggendario gruppo del Beat d'oltremanica) a chiudere definitivamente bottega e ad unirsi al semi-sconosciuto Peter Frampton nei nascenti Humble Pie; dal canto suo, lo stesso Jeff Beck si ritrova obbligato a riformare il proprio ensemble su basi del tutto nuove e più marcatamente Jazz, dopo le importanti defezioni del vocalist Rod Stewart e di un sottovalutato ma geniale chitarrista fino allora relegato al basso, tale Ron Wood.

I cinque "disertori" si mettono assieme e in breve si ribattezzano "Faces", tanto per ribadire (non senza certa ironia) un legame di continuità con la precedente esperienza degli Small Faces, e pubblicano il tanto atteso "primo passo" discografico nel marzo 1970 ("First Step" è in realtà il titolo del manuale per chitarristi principianti che Ron Wood è intento a leggere in copertina); saranno i 600.000 presenti al Festival di Wight di quell'anno a saggiare l'effettiva consistenza "live" di una band sino allora conosciuta solo per gli altisonanti nomi che la compongono, ma intanto i Nostri si fanno notare (e apprezzare) con un album molto interessante, meritevole di inserirsi nel novero degli esordi più significativi e sorprendenti di quegli anni; album che certa critica ha (forse troppo frettolosamente) definito la più debole delle prove di studio dei Faces, confrontandola polemicamente con il maggior successo commerciale di "A Nod Is As Good As A Wink" e con il fascino senza tempo di "Ooh La La", forse l'album in assoluto più noto nella discografia di Rod Stewart e compagni. In realtà mi sento di poter dire con relativa tranquillità che il qui presente "First Step" meriterebbe ben altra considerazione, vista soprattutto la qualità del materiale proposto e il gusto palesato nella scelta dei pezzi: le radici Blues e Rock'n'Roll, elemento fondante nella formazione di ciascuno dei componenti, sono rivisitate con spirito tutt'altro che puristico, nel contesto di brani molto efficaci e di sicura ed immediata presa, affrontati con sicurezza e personalità, senza sbavature né momenti di particolare debolezza. Si è anche detto che la presenza di due strumentali non certo memorabili come "Pineapple And The Monkey" e "Looking Out The Window" confermerebbe il fatto che il gruppo fosse, all'epoca, ancora alla ricerca di una precisa direzione stilistica, ma ciò non è del tutto vero, poiché gli strumentali in questione appaiono tutt'altro che semplici riempitivi incisi per mancanza di meglio: sono invece testimonianze sincere della peculiarità timbrica dei Faces, di un sound già caratteristico e perfettamente riconoscibile; quei suggestivi intarsi di chitarra e organo sono infatti il "marchio di fabbrica" di una formazione la cui padronanza tecnica e il cui gusto nella scelta degli arrangiamenti non possono certo discutersi. Il ruvido cantato di Rod Stewart (che si è già messo in luce nei primi due album di Beck, avviando nel 1969 una più che soddisfacente carriera solista) si addice magnificamente alla tipica coloritura dolce-amara del Blues dei Faces, abili a combinare durezza e sapori nostalgico-malinconici tra le pieghe di un repertorio sapientemente variegato e selezionato. Sfuriate al limite dell'Hard (l'uso dell'organo in questo album ricorda molto certe analoghe soluzioni dei Vanilla Fudge) si mescolano a dondolanti (e irresistibili) ballate dai toni smaccatamente "bluesy" e a gradevoli parentesi semi-acustiche che ancora una volta pongono in risalto la varietà timbrica della proposta.

A cominciare dalla magistrale ripresa della dylaniana (e demoniaca) "Wicked Messenger", passata quasi inosservata ai tempi dell'uscita di "John Wesley Harding" ma qui in grande spolvero, con le fluide linee di basso tracciate da Ronnie Lane a reggere l'ossatura di un Blues potente e corposo, ben altrimenti incisivo rispetto alla versione originale (per dirla con un esempio tratto peraltro dal medesimo album di Dylan, si avverte la stessa differenza che passa tra la versione originale di "All Along The Watchtower" e l'interpretazione che ne avrebbe dato Hendrix); splendida la successiva "Devotion", accattivante slow dominato in apertura dalle calde sonorità dell'Hammond di McLaglan, fino ad arrivare al superbo, dirompente assolo finale di Ron Wood, autore anche di un breve ma significativo intervento vocale; non altrettanto interessante il Boogie fin troppo convenzionale di "Shake Shudder", prima di incontrare le cose migliori della prima parte dell'album, due eccelse pagine di gusto e abilità strumentale, oltreché di filologica conoscenza di certe vibrazioni tipicamente "sudiste": la prima è la quasi-filastrocca di "Stone", intonata da Ron Wood accompagnandosi alla chitarra acustica, con Rod Stewart che "si disimpegna" al banjo per un Country-Western vecchio stile molto orecchiabile, dal ritmo vivace e saltellante (vicinissime sono le atmosfere del coevo "Gasoline Alley" di Stewart); la seconda è il truce e purissimo Delta Blues di "Around The Plynth", ove a farla da protagonista è indiscutibilmente la slide guitar di Wood, fra rallentamenti e repentine accelerazioni che garantiscono al brano dinamismo e imprevedibilità (sensazionale è la prova vocale di Rod Stewart).

La seconda parte di "First Step" si apre con la claptoniana (ma non particolarmente originale) "Flying" e la già ricordata parentesi strumentale (tutt'altro che trascurabile) di "Pineapple And The Monkey"; ma a sorprendere è un'altra ballata, la romantica "Nobody Knows" scandita dal piano e dalle chitarre di Wood, autore di delicati e accattivanti ricami. Di nuovo uno strumentale ("Looking Out The Window", introdotto dal basso pulsante di Lane e perfetta vetrina d'esposizione per le doti strumentali della band: più che mai graffiante Wood), prima di chiudere in bellezza con il coinvolgente shuffle-blues di "Three Button Hand Me Down".

Quattro stelle che ci stanno tutte. Esordio col botto per una delle leggende del Rock inglese targato anni '70.

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