Stravagante la scelta operata dai Fairport per questa loro uscita discografica targata 1987: il titolo e le foto on stage sulla copertina suggeriscono apertamente di essere in presenza di un album dal vivo, ma non è così: le sei canzoni ed il medley presenti sono state regolarmente registrate in studio, dopodiché si è operata l’aggiunta di applausi e rumori assortiti di una audience… ma non di un loro concerto! Bensì, pare, di un’esibizione di un collega e caro amico, il compianto John Martyn.
Il fatto è che la band era in una fase molto felice di carriera, coi musicisti intenzionati a registrare e fissare su disco l’affiatamento e l’entusiasmo del momento. L’anno prima avevano fatto addirittura uscire un disco completamente strumentale, pochi mesi dopo questa uscita (1987) vi sarà invece l’ennesimo album con nuove canzoni.
Quel che se ne ricava è un suono sontuoso, caldo e profondo, sapientemente arricchito di quei riverberi lunghi proprio a ricreare la resa di una sala da concerto. La voce di Simon Nicol, cantante principale del quintetto, calda e rigogliosa di suo ai livelli di un Fabrizio De Andrè, giganteggia in alcune ballate di smagliante bellezza (l’inestimabile gioiello “Close To The Wind” in special modo, ma pure la classica “Meet On The Ledge”, coi suoi cori celestiali nel ritornello).
Chi sono i Fairport Convention? Solamente il più rinomato e, per i più, meritorio gruppo folk rock britannico: ad oggi viaggiano sui 45 anni di carriera, fonte di una vastissima produzione discografica, con una storia di musicisti splendidi avvicendatisi nelle loro file (a cominciare dalla sfortunata Sandy Danny, una cantante da costanti brividi alla schiena) e infine una lista di canzoni capolavoro disseminate qui è là nella loro discografia.
Oltre a Nicol, voce solista e vigoroso chitarrista ritmico specie con l’acustica, i Fairport del periodo comprendevano anche il grande Dave Mattacks, batterista anomalo se c’è n’è uno visto che suona anche le tastiere (benissimo) e produce il tutto (cum lode). Per non parlare del suo stile percussivo: picchia come un fabbro! Ammirai il suo attack degno di una formazione hard rock ad un loro concerto bolognese, tanti anni fa, uno dei migliori della mia carriera di guardone di band sul palco. Per inquadrarlo ancora meglio, è un tizio che ha contribuito a dischi e/o concerti di Nick Drake, Steeleye Span, Brian Eno, Jethro Tull, Jimmy Page, Paul McCartney, George Harrison, Elton John e infiniti altri.
La scaletta dell’album è equamente sostenuta dalle due formule con le quali questa formazione si è divertita a costruire il suo repertorio e divertire e soddisfare il suo pubblico, cioè da un lato le cavalcate folk pressanti e gioiose con violini svolazzanti, mandolini pizzicanti, ironici e gioiosi cantati, dall’altra le ballate liriche e ancestrali, dall’altro le ballate ispirate e brividose.
Appartengono al primo gruppo l’apertura “Reynard the Fox” un traditional di autore ignoto già inciso sul secondo album di carriera, nonché la successiva, mandolinistica “The Widow of Westmoreland’s Daughter”, pur’essa un traditional, già visto in un disco del 1978, ma stavolta allungato da una spumeggiante giga, cavalcata alla grande dal virtuoso violino elettrico di Rick Sanders. Ed ancora il cosiddetto “Big Three Medley” che mette insieme il traditional inedito “The Swirling Pit” con la storica “Matty Groves”(da uno dei capolavori del gruppo, “Liege and Life” del 1969) e a chiudere uno strumentale dell’ottimo Sanders “The Rutland Reel”.
Le formidabili ballate che rendono a mio avviso emozionante l’ascolto di quest’opera sono, per cominciare, l’atmosferica “The Hiring Fair”, scritta dal batterista/pianista Mattacks per un album di solo un paio d’anni precedente a questo, ed intrisa del jazz Canterburyano più ispirato, grazie soprattutto al sublime solo di violino di Sanders, non per niente con un passato nei seminali Soft Machine.
In posizione cinque di scaletta arriva poi l’inestimabile “Close To The Wind” di cui si è già accennato, frutto della penna del cantautore folk Stuart Marson. La melodia è semplice, tipicamente folk con la strofa a quattro versi con lo schema A-A-B-A e niente ritornello. Ma è l’arrangiamento e la ancestrale sensibilità del quintetto che la interpreta ad elevarla a livelli sublimi: il pizzicato del violino e dell’acustica, i rintocchi del piano elettrico di Mattacks, le suadenti note del basso, per l’occasione fretless, di Dave Pegg (alla sua ultima incisione col gruppo prima di confluire nei Jethro Tull), il timbro come già detto caldissimo ed evocativo di Nicol… sei minuti da sballo.
Le altre due ballate sono vecchie cose composte dal primo, storico chitarrista del Fairport, Dave Thompson. Si intitolano “Crazy Man Michael” e “Matty Groves”, della cui magnificenza si è già detto in precedenza: cori magnifici a struggente ricordo di Sandy Danny, che nella versione originale (1969) “riempiva” le note alte come nessun’altra è stata capace. Per chi fosse a digiuno di folk inglese, la povera Danny è quella che duetta con Robert Plant nello stratosferico heavy folk “The Battle Of Evermore”, uno dei tanti capolavori di Led Zeppelin IV.
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