Il sette di marzo di quest'anno è morto d'infarto, nella sua casa alla periferia di Londra, il sessantacinquenne chitarrista britannico Peter Banks. I molti appassionati del gruppo progressive degli Yes sanno bene chi fosse, ma credo che solo una minoranza di essi vi associ la giusta dose di stima, in ragione del fatto che la sua chitarra, titolare nei primi due album del gruppo, viene trattata molto male nel missaggio, anzi si può ben dire addirittura sabotata nel secondo di essi "Time And A Word".
Nella band messa insieme da Peter all'indomani del suo avvicendamento con Steve Howe negli Yes, questi Flash appunto, il chitarrista andò invece alla grandissima, riscattandosi bravamente. Mi prendo allora l'incarico di dire quattro parole su di lui, appoggiandomi a questa terza ed ultima uscita (1973) del quartetto che l'ha visto grande protagonista.
Banks era quello che aveva coniato il nome Yes fra l'altro, dando il meglio di se stesso e costruendosi una buona reputazione a suon di valide performances dal vivo, per poi via via demotivarsi e defilarsi, prevaricato dal carattere dispotico del frontman Jon Anderson. Il suo stile pulito, dallo swing jazzistico e per niente estetizzante, male si sposava con compagni d'avventura pieni di voglia di strafare, di stratificare partiture su partiture e caricare musica e testi di concettualità sempre più esoteriche e pompose.
Col quartetto dei Flash (senza tastierista titolare) Peter riuscì a riprendere là dove avevano lasciato i primi Yes: sempre musica progressive, articolata e super arrangiata ma sciolta e "leggera", alla ricerca del groove più che della pompa, senza tendenze classicheggianti e magniloquenze varie, soprattutto senza ostentare liriche filosofiche tanto new age. Lo aiutavano un ottimo batterista a nome Mike Hough, dotato di molto più swing dell'ex-compagno Bill Bruford, diciamo alla maniera di Phil Collins, e ancor più un bassista potente e melodico con uno stile spiccicato a quello di Chris Squire, al secolo Ray Bennett, infine un frontman privo del timbro purissimo e squillante del vituperato Jon Anderson, ma se non altro più disponibile e umile, tale Colin Carter.
L'assenza di tastiere è ovviata da Banks arrangiando il suo strumento attraverso innumerevoli sovraincisioni. La chitarra, quasi sempre distorta ed effettata con estrema moderazione, spunta in ogni dove nello spettro sonoro con una miriade di interventi e contrappunti... tanto ci pensa la sezione ritmica a mantenere salda la barra. Tutti e tre gli strumentisti suonano proprio bene, creativi e coesi, solo la voce di Carter risulta tutt'altro che epocale, ma stile e timbro sono assai personali e tali dunque da caratterizzare in pieno il gruppo.
Il disco migliore dei tre è probabilmente il secondo "In The Can", grazie al capolavoro in apertura "Lifetime", dieci minuti veramente pirotecnici, ma anche questo "Out Of Our Hands" si difende bene. Ci mette un po' a carburare, con i primi tre brani che risultano brevi e un po' insipidi; le cose cominciano a lievitare con i moderati inserti jazz del quarto brano "Man Of Honour" e poi si innalzano definitivamente con una compatta serie di mini-suites dai fantasiosi titoli ("The Bishop", "Psychosync", "Manhattan Mornings") una più bella dell'altra, con il nodoso basso di Bennett a creare ritmo e melodia insieme e le mille chitarrine di Banks a infiorettare dappertutto.
Nota finale per la copertina, una modesta creazione della Hipgnosis, lo studio grafico londinese allora massimamente in voga grazie a celebrati lavori per Pink Floyd, Genesis, EL&P, Black Sabbath, Yes, Led Zeppelin e tanti altri. Proprio la copertina di "Houses Of The Holy" degli Zepp viene parzialmente riciclata per l'occasione: in mezzo ad un originale, ma cromaticamente poco efficace panorama fatto di dorsi di mano (colline), dita (alberi) e qualche tettina (capanne), spunta un paio degli stessi bambolotti biondi che molto più efficacemente erano stati pochi mesi prima immortalati nell'atto di arrampicarsi sulle magnifiche scogliere Giant's Causeway, in Nord Irlanda.
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