Essere o non essere prog? Un dubbio amletico che ci affligge di fronte ad una miriade di band. Di fronte ai Flying Colors la domanda sarà sorta a chiunque. Qualcuno dirà: “ma chi se ne frega del genere…?!” ma per la critica musicale porsi il problema del genere è parte integrante del gioco, dell’attività di critica! La bibbia prog Progarchives li accoglie nella propria libreria ma nella sezione “Prog Related”, una sezione a parte dedicata a quei gruppi che in qualche modo sono stati influenzati dal genere ma senza mai esserne davvero considerati esponenti, ad esempio Iron Maiden, Metallica, Muse e Queen. Tuttavia nei vari forum, pagine Facebook, riviste e rubriche dedicate al progressive i Flying Colors vengono regolarmente trattati come un qualsiasi gruppo del calderone prog. Ascoltando i primi due album l’idea che mi sono fatto è quella di un gruppo influenzato dal genere ma non propriamente un gruppo prog, un gruppo maggiormente orientato verso il classic rock, con sfumature di pop-rock, hard rock e blues rock, con brani perlopiù orientati al formato canzone ma che non si fa alcun problema ad inserire lunghe intro, lunghi assoli, passaggi strumentali di rilievo, concedendosi anche a brani lunghi ed elaborati; in un certo senso ha ragione Progarchives, diciamo che è più o meno il discorso che si può applicare a gruppi storici come Styx e Supertramp; ultimamente poi ho scoperto di avere un certo debole per questo tipo di gruppi, proprio per quest’essere in bilico, questo voler atteggiarsi a prog band ma non esserlo, creando un alone di mistero sul proprio nome.

Tuttavia questo terzo album cambia in maniera significativa la visione circa l’approccio del gruppo. Possiamo affermarlo senza problemi, “Third Degree” è un album più marcatamente progressive. Già quando fu resa nota la tracklist accompagnata dalle durate delle tracce si capiva nettamente quale direzione volesse prendere il gruppo. 5 dei 9 brani superano i 7 minuti, numeri che rappresentano senz’altro un chiaro segnale; da notare che ad allungare questi brani non è un semplice assolo particolarmente lungo o un’intro un pochino tirata per le lunghe, non è quanto accadeva in brani come “Blue Ocean” o “Peaceful Harbor”, qui l’obiettivo sembrerebbe proprio quello di andare oltre la forma canzone e realizzare brani più articolati. Pensiamo a brani come “More” e “Guardian”; la prima sorprende l’ascoltatore con il suo sound tecnologico e futuristico alquanto insolito per il gruppo, evidenziato anche dal suo particolare video che vede la band in una versione fluo-pellerossa di se stessa: se la prima metà è piuttosto accattivante e diretta successivamente si assiste a significativi cambi di ritmica e dialoghi fra chitarra e tastiera che non possono non essere inquadrati nel prog, subito dopo vi è una significativa parte lenta, prima molto delicata e poi più intensa, segue poi un assolo di tastiera molto tecnologico e spregiudicato; la seconda sembra avere una struttura più o meno simile, più o meno immediata nella prima parte scandita da robuste linee di basso prima di prendere una piega completamente diversa, prima una parte lenta con un lungo assolo di chitarra accompagnato da un intenso organo e da sottili coretti vocali, poi una scorribanda strumentale con lungo e furioso assolo di basso dai connotati fusion. “Cadence” sembra più delicata e composta, più orientata verso un rock sinfonico ed elegante ma non ci si fa problemi ad inserire qualche assolo di chitarra più del dovuto, in più Portnoy cerca di rendere più tesa e variegata la ritmica di un brano relativamente pacato inserendo qualche colpo a sorpresa, si cerca perfino di ingannare l’ascoltatore accennando una parte più veloce e movimentata fingendo di trascinarlo verso una sezione più scatenata che poi non arriva.

Tuttavia l’incursione nel prog-rock più puro e libero nelle forme si ha nelle due composizioni più lunghe, di durata superiore ai 10 minuti; “Last Train Home” inizialmente lenta colpisce per la sua frizzante sezione centrale acustica, con sfuriate di chitarre, archi e scat vocali che rimandano ad un folk tribale e selvaggio, fornendo uno dei momenti più interessanti dell’intero album; “Crawl” è la più vicina al prog settantiano, passaggi di piano, organi e mellotron che rimandano ai Genesis (a tratti sembra di sentire “Firth of Fifth”), ha solo il difetto di risultare un po’ dispersiva.

Il timore che si avverte è che nel diventare più prog i Flying Colors finiscano per diventare la copia dei Transatlantic, ma la classe e la peculiarità di ogni componente fa sì che questo prog sia rielaborato in maniera intelligente, unendo il tocco inconfondibile di ciascuno.

Comunque nonostante l’impennata prog la band non sembra voler davvero diventare prog, vuole mantenere comunque un approccio leggero da rock band; se già i tre brani da 7 minuti hanno comunque una prima parte molto rock-oriented l’album contiene anche 4 tracce meno lunghe ed esplicitamente più dirette che almeno per il momento impediscono di decretare una vera e propria svolta prog. L’opener “The Loss Inside” è ad esempio una bomba hard rock al vetriolo dove la chitarra di Steve Morse e l’organo massiccio di Neal Morse viaggiano a mille, ma c’è anche spazio per delle strofe più lente, intrise di soul e blues scandite dal basso e dalla voce intensa di Casey McPherson. “Geronimo” propone un funk-blues insolito dove con delle staffilate metalliche il bassista Dave LaRue si rende ancora una volta protagonista. “You Are Not Alone” è una ballata in crescendo che attinge dal brit-pop e dal soul, a ribadire l’anima più pop e leggera dei Flying Colors in ogni caso ci pensa “Love Letter”, un allegro motivetto hippie sessantiano che si stampa nella testa e non esce più, centrando appieno il suo obiettivo di essere pop mantenendo comunque la decenza.

Riassumendo direi che all’inizio avrei firmato perché i Flying Colors continuassero su un approccio con meno elementi prog (all’incirca quello del precedente album), questa era forse una svolta da intraprendere più avanti, ma quando mi sono trovato di fronte alla realtà devo dire, da amante delle sterzate più o meno di ogni tipo, che mi è piaciuto tantissimo sentirli in questa veste più progressiva, “Third Degree” paradossalmente contribuisce a rendere ancora più misterioso e difficile etichettare questo supergruppo che stavolta si trova davvero in bilico fra un approccio e l’altro. E poi quando hai una combo di musicisti del loro calibro la classe è assicurata. Il rischio di Transatlatic 2.0 per il momento è scongiurato ma ora proprio dei Transatlantic si attende il grande ritorno (le registrazioni del quinto album sembrano a buon punto).

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